A poco meno di un anno dal suo lancio, la missione Imaging X-Ray Polarimetry Explorer (Ixpe), frutto della collaborazione tra Nasa e Agenzia spaziale italiana (Asi), continua a fornire nuovi fondamentali contributi per la comprensione delle caratteristiche delle più esotiche sorgenti astrofisiche. Grazie ai dati raccolti dai suoi tre telescopi, che si avvalgono di particolari rivelatori per lo studio della polarizzazione della luce nella banda X sviluppati e realizzati dall’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), Ixpe ha infatti consentito di appurare che dietro l’accelerazione – a velocità prossime a quelle della luce – delle particelle di cui sono composti i poderosi getti emessi dai blazar, oggetti appartenenti alla famiglia dei nuclei galattici attivi tra i più luminosi del cielo, potrebbero celarsi delle potenti onde d’urto. A rivelarlo, uno studio pubblicato oggi, 23 novembre, sul sito web della rivista Nature dal team internazionale di scienziati della collaborazione Ixpe, di cui fanno parte ricercatrici e ricercatori di Asi, Infn, Inaf e delle università di Siena, Torino, Pisa, Firenze, Roma Tre, Roma Tor Vergata e Padova, che ha preso in esame i dati relativi a Markarian 501, un blazar situato in direzione della costellazione di Ercole, confrontandoli con quelli ottenuti in altre lunghezze d’onda da alcuni telescopi da Terra e dallo spazio.
Costituiti da buchi neri super massicci molto attivi di milioni o forse miliardi di masse solari, che attraggono continuamente nella loro orbita il materiale responsabile della formazione dei cosiddetti dischi di accrescimento, i blazar sono caratterizzati dall’emissione di due potenti getti di particelle, perpendicolari ai dischi stessi, uno dei quali indirizzato verso la Terra, rendendoli così particolarmente luminosi. Studiando nel dettaglio la polarizzazione della luce nella banda X proveniente da Markarian 501, ovvero la direzione in cui oscilla il campo elettrico a essa associato, Ixpe ha consentito di mappare il campo magnetico all’interno del quale le particelle vengono accelerate emettendo fotoni, e di comprendere per la prima volta che la causa più probabile della loro energia così elevata è attribuibile al propagarsi di un’onda d’urto all’interno del getto.
«Abbiamo risolto un mistero che dura da 40 anni», ha dichiarato Yannis Liodakis, autore principale dello studio e astronomo presso il Finca, il centro astronomico finlandese dell’Eso. «Finalmente abbiamo completato il puzzle e il quadro che ne emerge è piuttosto chiaro”.
Le osservazioni effettuate da Ixpe nel marzo 2022, insieme a quelle condotte nello stesso periodo in direzione dello stesso oggetto da altri telescopi, hanno quindi consentito di studiare la radiazione emessa in un’ampia gamma di lunghezze d’onda, tra cui quella radio, ottica e, per la prima volta, X, e di dimostrare come proprio la radiazione X emessa dal blazar fosse più polarizzata di quella ottica, che a sua volta è risultata più polarizzata di quella radio.
Dopo aver confrontato le informazioni con i modelli teorici, il team di astronomi si è reso conto che i dati corrispondevano maggiormente a uno scenario in cui un’onda d’urto accelera le particelle del getto. Un’onda d’urto si genera quando qualcosa si muove più velocemente della velocità del suono del materiale circostante, come quando un jet supersonico vola nell’atmosfera terrestre.
Le discrepanze riscontrante nel grado di polarizzazione della luce alle diverse frequenze possono perciò essere spiegate supponendo che, una volta superato il luogo di origine dell’onda d’urto, le particelle che compongono il getto dei blazar attraversino regioni caratterizzate da campi magnetici turbolenti, in maniera analoga a ciò che accade a un flusso d’acqua dopo aver superato una cascata. La turbolenza ha infatti l’effetto di ridurre la polarizzazione della luce. La radiazione X risulterebbe perciò più polarizzata poiché viene emessa da particelle più energetiche, appena accelerate nella zona dell’onda d’urto, al contrario della luce emessa nella banda ottica e in quella radio.
«Le prime misure di polarizzazione nei raggi X di questa classe di sorgenti hanno consentito, per la prima volta, un confronto diretto con i modelli elaborati nell’ambito del complesso quadro evidenziato dalle osservazioni multifrequenza, dalla banda radio fino alle altissime energie. Nuove evidenze verranno fornite da Ixpe grazie all’analisi dei dati in corso e di quelli da acquisire in futuro», commenta Immacolata Donnarumma, project scientist di Ixpe per l’Agenzia spaziale italiana.
«Ixpe è stato progettato per funzionare in una banda di energia, “i raggi X molli”, che permette, tra l’altro, di sondare la fisica di diverse classi di blazar. Nel caso di Mrk 501 abbiamo potuto sondarne una in cui i raggi X sono emessi da elettroni che si muovono a velocità molto prossime a quelle della luce intorno al campo magnetico. Altri blazar di diversa tipologia verranno studiati durante la prossima fase osservativa della missione», osserva Paolo Soffitta, ricercatore Inaf e principal investigator italiano di Ixpe.
«Grazie ad un rivelatore innovativo, il Gas Pixel Detector, interamente sviluppato e realizzato in Italia, Ixpe ha permesso finalmente di aggiungere uno dei tasselli mancanti alla comprensione dell’universo ad alta energia, e questo studio dimostra appieno il potenziale scientifico di questa nuova finestra osservativa», conclude Luca Baldini dell’Infn di Pisa, co-principal investigator italiano di Ixpe.
Ulteriori campagne di osservazione si concentreranno nel prossimo futuro su Markarian 501, allo scopo di comprendere se il grado polarizzazione vari nel tempo. Indagini che vedranno impegnato anche Ixpe, che durante i prossimi due anni, Ixpe studierà inoltre altre sorgenti simili, fornendo un nuovo strumento capace di esplorare sempre più da vicino le proprietà delle regioni di spazio che ospitano sorgenti astrofisiche esotiche quali buchi neri, stelle di neutroni e resti di supernove.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Polarized blazar X-rays imply particle acceleration in shocks”, di Ioannis Liodakis et al.