È un esperimento dal cast a dir poco stellare, quello che si è guadagnato l’ultima copertina di Nature: in ordine di apparizione abbiamo l’intelligenza artificiale, un computer quantistico, l’entanglement e niente meno che un wormhole. Insomma, gli ingredienti per arrivare a un risultato tanto affascinante quanto incomprensibile ci sono tutti. E in effetti riuscire a farsi un’idea – anche solo un assaggio – di quello che il team scienziati statunitensi e israeliani che ha firmato l’articolo è riuscito a compiere è un’impresa ardua. Ma vale la pena provarci, perché è un piccolo passo verso una modalità di condurre esperimenti – e di avanzare nella conoscenza – con la quale avremo a che fare sempre più spesso nei prossimi anni. In breve: hanno simulato un wormhole usando un computer quantistico. E lo hanno “attraversato”.
Prima di percorrrere i numerosi passi indietro necessari a comprendere qualcosa di più di questo risultato, sgomberiamo subito il campo da un possibile fraintendimento: in quel computer – un processore quantistico Sycamore di Google – non si è creato alcun buco nero, men che meno una lacerazione dello spaziotempo. E l’esperimento in sé, per quanto la sua riuscita rappresenti un grande successo dal punto di vista tecnologico, non ha portato a un avanzamento della nostra conoscenza sui wormholes. Ha comunque dimostrato come si possa usare un computer quantistico per realizzare un “laboratorio sperimentale” per esperimenti di gravità quantistica.
Ridimensionate così eventuali attese eccessive, proviamo ora a vedere cosa è stato fatto. Partendo anzitutto dai wormholes. Il termine risale agli anni ’50, ma il concetto di “scorciatoie” fra regioni remote dello spaziotempo era stato teorizzato per la prima volta da Albert Einstein e Nathan Rosen già nel 1935, ipotizzando l’esistenza – dedotta dalla teoria della relatività generale – di una sorta di tunnel – un ponte di Einstein-Rosen, appunto – che si verrebbe a creare a seguito della curvatura estrema dello spaziotempo là dove le singolarità di due buchi neri s’incontrano.
L’idea di un collegamento diretto fra due regioni remote dello spaziotempo, sogno ricorrente di chi vive la velocità della luce come un limite frustrante alla libertà di movimento attraverso il cosmo, rimanda a un’altra “scorciatoia”, questa volta non gravitazionale ma quantistica: il fenomeno dell’entanglement, la connessione – più volte confermata da verifiche sperimentali – che può esistere fra due particelle indipendentemente dalla distanza che le separa.
Questi due concetti – wormhole ed entanglement, apparentemente così incommensurabili ma al tempo stesso curiosamente affini – hanno trovato una cornice teorica che formalmente li accomuna nel giugno del 2013, quando Juan Maldacena e Leonard Susskind pubblicano un articolo nel quale, immaginando due buchi neri in stato di entanglement, arrivano a proporre una corrispondenza fra entanglement e wormholes. Ricorrendo al cosiddetto “principio olografico”, in base al quale un mondo a n dimensioni può essere rappresentato dal mondo a n-1 dimensioni che ne segna i confini, il fenomeno dell’entanglement quantistico potrebbe essere visto come una rappresentazione nell’universo a 3D (senza dunque considerare la gravità) di quello che sono i wormholes in un universo a 4D (con la gravità).
Ma se l’entanglement corrisponde a un wormhole, il teletrasporto quantistico non potrebbe corrispondere all’attraversamento di un wormhole? Sarebbe molto bello, ma purtroppo c’è almeno un problema: mentre il teletrasporto quantistico è un’operazione in parte fattibile, come dimostrano vari esperimenti condotti negli ultimi anni, l’attraversamento di un wormhole dovrebbe essere teoricamente precluso. Una soluzione però potrebbe esserci, suggerisce uno studio del 2017: un’onda d’urto di energia negativa potrebbe tenere “aperto” il wormhole per il tempo necessario all’attraversamento.
Ed è questo scenario ciò che il team del Caltech, guidato da Daniel Jafferis di Harvard, è riuscito con grande fatica prima a implementare e quindi a mettere alla prova sul computer quantistico di Google. L’implementazione si basa su un modello noto fra gli addetti ai lavori come modello Syk (dalle iniziali dei fisici che lo hanno messo a punto, Subir Sachdev, Jinwu Ye e Alexei Kitaev), e per realizzarla i ricercatori hanno dovuto indurre uno stato di entanglement fra due porzioni del computer quantistico – la controparte dei due “lati” del wormhole. Poi hanno tentato di farle interagire inviando un messaggio da una porzione all’altra.
Descritto così sembra fantascienza, ma i problemi che il team si è trovato ad affrontare sono in realtà molto concreti: hanno a che fare, per esempio, con la sensibilità del sistema al rumore e alle interferenze, motivo per cui si è deciso di usare “solo” 9 dei 53 qubits effettivi di Sycamore, ottenendo dunque un “wormhole olografico” a risoluzione molto bassa. E per far sì che la necessaria semplificazione del modello non pregiudicasse la sua capacità di mantenere le proprietà chiave della fisica di un wormhole, hanno dovuto far ricorso all’intelligenza artificiale, e in particolare a metodi di addestramento e semplificazione “intelligente” delle reti neurali noti, rispettivamente, come backpropagation e sparsification.
«Per creare un wormhole siamo partiti da un grande sistema quantistico e lo abbiamo trattato come una rete neurale», spiega il secondo autore dell’articolo pubblicato su Nature, Alexander Zlokapa, in un post sul blog di Google dedicato al machine learning. «La retropropagazione ha aggiornato i parametri del sistema così da mantenerne le proprietà gravitazionali, mentre la sparsificazione ne ha ridotto le dimensioni. Abbiamo applicato il machine learning per addestrare un sistema che mantenesse una firma gravitazionale chiave soltanto: l’importanza di utilizzare un’onda d’urto di energia negativa. Il set di dati di addestramento confrontava le dinamiche di una particella nell’atto di attraversare un wormhole che venisse tenuto aperto da energia negativa rispetto, invece, a un wormhole che collassasse con energia positiva. Garantendo che il sistema così addestrato mantenesse questa asimmetria, abbiamo ottenuto un “modello sparso” coerente con le dinamiche di un wormhole».
Giunti a questo punto, hanno tentato “l’attraversamento del wormhole”, usando due dei nove qubits come “messaggio” (o “particella”) in ingresso e in uscita, e gli altri come versione olografica semplificata del wormhole – in termini tecnici, un modello Syk sparso. Se davvero si fosse comportato come un wormhole, si sarebbe dovuta notare un’asimmetria – quella, appunto, descritta da Zlokapa fra i casi in cui l’energia dell’onda d’urto sia negativa e quelli in cui sia positiva – nel successo o meno degli attraversamenti, ovvero nella capacità del sistema di degradare prima, e ricostruire poi, il “messaggio”, restituendolo intatto in uscita. Un trasferimento d’informazione, questo attraverso i qubits, estremamente caotico: per descriverlo, Zlokapa usa l’analogia di una goccia d’inchiostro lasciata cadere nell’acqua.
«Quando una particella cade in un wormhole, le sue informazioni vengono spalmate sull’intero sistema quantistico nell’immagine olografica. Affinché l’onda d’urto di energia negativa funzioni, il rimescolamento delle informazioni deve seguire uno schema particolare noto come perfect size winding. Una volta che la particella è entrata in collisione con l’onda d’urto di energia negativa, gli schemi caotici procedono effettivamente al contrario: quando la particella emerge dal wormhole, è come se la goccia d’inchiostro si fosse ricomposta, annullando esattamente la diffusione turbolenta sperimentata in fase d’ingresso. Se, in qualsiasi momento, si verifica un piccolo errore, le dinamiche caotiche non si annulleranno e la particella non riuscirà a superare il wormhole».
Ebbene, ciò che gli autori dell’esperimento hanno osservato è che il “messaggio” usciva correttamente ricomposto. La “goccia d’inchiostro” riemergeva intatta all’altro lato del tunnel. Esperimento riuscito. «Abbiamo trovato un sistema quantistico che mostra le proprietà chiave di un wormhole gravitazionale ma è sufficientemente piccolo per essere implementato nell’hardware quantistico disponibile oggi», riassume Maria Spiropulu del Caltech, anche lei fra gli autori dello studio.
«Poiché nove qubits possono essere facilmente simulati su un computer classico, i risultati di questo esperimento non ci insegnano nulla che non potessimo imparare con un calcolo classico, e non ci insegneranno niente di nuovo sulla gravità quantistica», notano smorzando un po’ i facili entusiasmi Adam R. Brown e Leonard Susskind in un commento pubblicato sullo stesso numero di Nature. «Tuttavia, l’esperimento di Jafferis e colleghi è una prova di principio che pone le basi per ulteriori sviluppi».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Traversable wormhole dynamics on a quantum processor”, di Daniel Jafferis, Alexander Zlokapa, Joseph D. Lykken, David K. Kolchmeyer, Samantha I. Davis, Nikolai Lauk, Hartmut Neven e Maria Spiropulu
- Leggi su Nature il commento “A holographic wormhole traversed in a quantum computer”, di Adam R. Brown e Leonard Susskind
- Leggi sul blog di Google Research il post “Making a Traversable Wormhole with a Quantum Computer”, di Alexander Zlokapa