Gli astronomi raggruppano le stelle in tre principali popolazioni. La prima, la popolazione I, comprende le stelle dell’universo locale, quello a noi più vicino. Sono stelle giovani e con un’alta metallicità, cioè ricche di elementi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio (elementi che gli astronomi chiamano genericamente “metalli”). La seconda, la popolazione II, include stelle più vecchie e a bassa metallicità. Infine ci sono loro: le stelle di popolazione III, le più antiche dell’universo. Purtroppo, a differenza delle stelle di popolazione I e II, questi corpi celesti non sono mai stati osservati direttamente. La loro esistenza al momento è solo ipotetica, tuttavia è fondamentale per spiegare l’evoluzione dell’universo stesso. Utilizzando dei codici di evoluzione stellare, un gruppo di ricercatori guidati dall’Università di Padova, di queste stelle primordiali, ha ora ricostruito le principali tappe evolutive: dalle primissime fasi di contrazione gravitazionale, passando per tutte le fasi di combustione nucleare, fino alla loro morte.
Il primo autore dello studio, accettato per la pubblicazione su The Astrophysical Journal, è Guglielmo Volpato. Classe 1995, nato a Bassano del Grappa, in provincia di Vicenza, ha una laurea triennale in astronomia e la magistrale in fisica dell’universo, conseguite entrambe all’Università di Padova. Attualmente è al terzo anno del dottorato in astronomia. Si occupa di evoluzione stellare, specie di stelle massicce, studiando i vari fattori che influenzano il loro ciclo vitale. Lo abbiamo intervistato.
Volpato, che stelle sono, queste della Popolazione III?
«Le stelle di Popolazione III, o prendendo in prestito il termine inglese, le Pop III stars, sono state le prime stelle ad accendersi e a illuminare il nostro universo. Secondo il “modello standard” sulla formazione della prima generazione di stelle, hanno cominciato a formarsi ad un redshift z ~ 20-30, un’epoca corrispondente all’incirca a 100-200 milioni di anni dopo il Big Bang (dipendentemente dai parametri cosmologici adottati)».
Che masse avrebbero?
«Dopo il Big Bang i due elementi più abbondanti nell’universo erano l’idrogeno e l’elio, con un rapporto di circa 10 a 1 in favore dell’idrogeno (in numero di atomi), e la maggior parte degli elementi più pesanti non erano ancora stati sintetizzati. In assenza di metalli, la formazione stellare prevede che il collasso di nubi di gas possa formare stelle molto più massicce rispetto alle stelle odierne, per questo si pensa che le stelle di popolazione III potessero raggiungere una massa iniziale anche cento – o addirittura mille – volte quella del Sole. La massa iniziale delle Pop III stars resta comunque un argomento molto dibattuto. Data la loro massa elevata, queste stelle avrebbero terminato la loro evoluzione in un tempo scala dell’ordine di qualche milione di anni, morendo molto prima della formazione del nostro Sistema solare».
Come mai non le abbiamo ancora osservate?
«Il fatto che queste stelle si siano formate a partire da 100-200 milioni di anni dopo il Big Bang comporta che siano a una distanza enorme da noi (dato che guardando sempre più lontano nell’universo si osservano oggetti sempre più distanti anche temporalmente) e pertanto abbiano una luminosità eccezionalmente bassa. Questo le rende molto difficili da osservare anche con i più potenti telescopi a oggi disponibili. Un altro fattore che non gioca a nostro favore è proprio la massa di queste stelle. Essendo così massicce, bruciano molto “velocemente” il loro carburante e muoiono altrettanto “velocemente”, e per questo la loro osservazione risulta ancora più complicata».
Perché è importante studiarle?
«Capire come evolvono e muoiono queste stelle ha un grande impatto in diversi ambiti dell’astrofisica e ci aiuta a comprendere la natura di fenomeni molto energetici come le supernove dovute all’instabilità di coppia, le supernove super-luminose, le kilonove e i lampi di raggi gamma. Inoltre, queste stelle potrebbero aiutare a spiegare l’evoluzione chimica delle prime galassie e la fase di reionizzazione dell’universo, il tasso di emissioni di onde gravitazionali provenienti dalla fusione di buchi neri e la formazione di buchi neri supermassicci con una massa di milioni o anche miliardi di volte quella del Sole. Questi enormi buchi neri, che noi osserviamo al centro delle galassie, inclusa la nostra, potrebbero essersi formati tramite collisioni stellari in densi ammassi a partire da buchi neri primordiali prodotti alla fine dell’evoluzione di queste stelle».
Qual è il percorso che avete seguito nel vostro studio per ricostruire la loro storia evolutiva?
«Prima di tutto, abbiamo implementato in Parsec, il nostro codice di evoluzione stellare, un nuovo tipo di perdita di massa dovuto al fatto che queste stelle pulsano durante le fasi di sequenza principale e di supergigante rossa. Successivamente, abbiamo calcolato i modelli evolutivi di stelle con una massa iniziale tra le cento e le mille volte quella del Sole per due possibili composizioni chimiche: una quantità iniziale di metalli pari a zero e una quantità pari allo 0,02 per cento. Abbiamo poi calcolato questi due set di modelli utilizzando sia la perdita di massa standard adottata nel nostro codice (basata sui venti stellari) che tenendo conto della massa persa dalla stella a causa della pulsazione. L’evoluzione delle stelle è stata seguita dalla fase di sequenza principale, in cui la stella converte l’idrogeno in elio nel suo nucleo, fino all’inizio dell’instabilità dinamica causata dalla formazione di coppie elettrone-positrone».
Quali sono le principali tappe che attraversano queste stelle durante la loro vita?
«Questo tipo di stelle sono classificate come molto massicce, dato che la soglia tra le stelle di massa intermedia e quelle massicce è posta a circa otto masse solari. Le stelle massicce riescono a innescare nel loro nucleo le reazioni nucleari del bruciamento del carbonio e di tutti gli altri elementi fino alla formazione di un nucleo composto principalmente di ferro e della cosiddetta “struttura a cipolla”. Questo accade anche ai nostri modelli stellari. Queste stelle, però, sono talmente massicce che dopo l’inizio del bruciamento del carbonio hanno densità e temperature tali da diventare instabili a causa della creazione di coppie elettrone-positrone. In determinate condizioni, queste coppie di particelle vengono create a spese di parte dell’energia dovuta alla radiazione. Dato che la stella è supportata dalla pressione di radiazione, che contrasta la forza di gravità, quando questa viene ridotta dalla creazione di elettroni e positroni allora la stella non può più restare in equilibrio idrostatico e diventa instabile. Questo tipo di instabilità inizia nei nostri modelli dopo l’accensione del bruciamento del carbonio, del neon o dell’ossigeno a mano a mano che la massa iniziale passa da 300 masse solari o più a 100 masse solari».
E in quale modo avviene la loro morte?
«Stelle così massicce possono finire la loro evoluzione principalmente in tre modi. Se la stella riesce a formare un nucleo di ferro, allora può finire la sua vita esplodendo come supernova oppure collassando e formando un buco nero. Tra i nostri modelli solamente quelli con la massa più piccola (100 masse solari) e con metallicità zero possono seguire quest’ultimo scenario. Poi, in stelle che hanno un nucleo di elio tra le 34-45 masse solari e le 135 masse solari circa, l’instabilità di coppia gioca un ruolo fondamentale. Ci sono due regimi distinti in cui questa instabilità è molto importante. Per stelle con una massa del nucleo di elio tra circa 34-45 masse solari e le 64 masse solari, l’energia dell’instabilità non è sufficiente a distruggere l’intera stella, questo tipo di stelle risultano in una supernova detta “a instabilità pulsazionale e di coppia”. In questo caso la stella subisce diverse pulsazioni in cui la sua massa viene ridotta, prima di completare gli ultimi bruciamenti nucleari ed esplodere in una supernova o collassare formando un buco nero. Invece, stelle un po’ più massicce con una massa del core di elio tra le 64 e le circa 135 masse solari presentano una singola pulsazione così energetica da distruggere tutta la stella non lasciando nulla. Queste sono chiamate supernove “a instabilità di coppia”. Prevediamo che i nostri modelli con massa iniziale di 150 e 200 masse solari concludano la loro evoluzione tramite una supernova a instabilità di coppia indipendentemente dalla metallicità e dalla perdita di massa. Invece, modelli con una massa iniziale di 100 masse solari e metallicità 0.02 per cento dovrebbero rientrare tra le supernove a instabilità pulsazionale e di coppia. L’ultimo caso possibile si verifica per i nostri modelli con massa iniziale maggiore o uguale a 300 masse solari. Queste stelle sono talmente massicce che hanno un nucleo di elio maggiore di 135 masse solari e per questo collassano direttamente formando un buco nero molto massiccio, senza che vi sia perdita di massa dovuta all’instabilità di coppia».
Rispetto agli studi precedenti, quali sono le novità che avete introdotto in questa ricerca?
«Abbiamo utilizzato una nuova formulazione per la perdita di massa dovuta alla pulsazione durante le fasi di sequenza principale e di supergigante rossa e abbiamo seguito l’evoluzione dei modelli dalla sequenza principale fino all’inizio dell’instabilità dinamica causata dalla formazione di coppie elettrone-positrone. Modelli precedenti avevano seguito l’evoluzione di nuclei di elio non tenendo conto delle fasi precedenti o fermandosi in prossimità della fine del bruciamento dell’elio. Inoltre, abbiamo spinto il limite superiore del range di massa dei nostri modelli fino a mille masse solari e cercato di predire il loro risultato finale. Questo potrebbe contribuire a contestualizzare dati di futuri detector di onde gravitazionali come il telescopio Einstein e il Cosmic Explorer, che avranno accesso per la prima volta a buchi neri con masse tra le cento e le diecimila masse solari nell’universo primordiale».
Che cosa ci dicono i risultati che avete ottenuto?
«I nostri risultati indicano l’importanza di considerare la perdita di massa pulsazionale durante l’evoluzione di stelle di popolazione III. Questo influisce non solo sulle proprietà fisiche della superficie stellare e sulla sua struttura durante le varie fasi evolutive, ma anche sulla massa che la stella possiede alla fine dell’evoluzione. Abbiamo trovato che la perdita di massa dovuta alla pulsazione e i venti dovuti alla radiazione stellare dominano in fasi diverse dell’evoluzione ed inoltre la quantità di massa espulsa nel primo caso può raggiungere le centinaia di masse solari per i modelli più massicci. Questo è di grande rilevanza dato che le stelle di popolazione III non perdono grandi quantità di massa a causa dei venti stellari, data l’assenza o quasi di metalli. Infine, per i modelli con cento masse solari e metallicità zero abbiamo trovato due possibili risultati. Questo è molto interessante e potrebbe aiutarci a capire meglio la formazione di buchi neri in sistemi binari, le cui onde gravitazionali sono state osservate da Ligo e Virgo – specie l’evento Gw 190521, il cui buco nero primario ha una massa di circa 86 masse solari».
Il James Webb Space Telescope ha come obiettivo quello di puntare gli occhi sulle galassie primordiali e spingere il limite osservativo a valori di z maggiori rispetto agli strumenti precedenti. Dal momento che grazie all’effetto del redshift la luce di tali sorgenti cade nella banda del vicino infrarosso, quella a cui Jwst è sensibile, avremo la possibilità di osservarle direttamente, queste stelle sfuggenti?
«Alcuni recenti studi hanno analizzato l’osservabilità di queste stelle di Popolazione III con il Jwst. Per osservare una singola stella servirebbe un fenomeno di lente gravitazionale con un fattore di ingrandimento paragonabile a quelli dedotti per gli oggetti più distanti ad ora osservati. D’altro canto, se il target dell’osservazione fosse un ammasso o una galassia di stelle di popolazione III, allora il fenomeno di lente gravitazionale necessario non sarebbe così grande come nel primo caso. Nello scenario più favorevole possibile non ci sarebbe bisogno di alcuna lente gravitazionale, ma questo ovviamente dipenderebbe dal redshift e dalla luminosità totale dell’oggetto. In definitiva, con il Jwst potremmo avere la possibilità di osservare finalmente questo tipo di stelle, ma limitandoci a una stima più conservativa dovremmo dire che l’osservazione di ammassi e/o galassie contenenti stelle di Popolazione III potrebbe essere più alla nostra portata».
Per saperne di più:
- Leggi su arXiv.org il pre-print dell’articolo “A Study of Primordial Very Massive Star Evolution” di Guglielmo Volpato, Paola Marigo, Guglielmo Costa, Alessandro Bressan, Michele Trabucchi e Léo Girardi