La nostra vita è scandita dallo scorrere del tempo. Se ci diamo appuntamento, sappiamo che dobbiamo vederci in un certo posto a una certa ora. Questo implica che abbiamo modo di misurare il tempo e, per millenni, questo compito è stato legato alla rotazione della Terra. Il secondo era definito come la 86400esima parte della durata del giorno che è fatto da 24 ore di 60 minuti ognuno dei quali è composto da 60 secondi. Ma, tornando al nostro appuntamento, se ci vogliamo incontrare, il mio tempo deve essere uguale al tuo, cioè i nostri orologi devono essere sincronizzati, e questo deve valere ovunque, su tutta la Terra. Un compito tutt’altro che banale che le varie nazioni avevano affrontato già nell’800 dotandosi di laboratori di metrologia dedicati, tra l’altro, alla misura del tempo.
Per essere sincronizzati, i laboratori nazionali devono essere coordinati a livello mondiale e questo è il compito del Bipm (Bureau International des Pois et Mesures), un’istituzione intergovernativa, creata a Parigi nel 1875, che oggi conta 62 stati membri e 42 associati. Tutti devono lavorare in stretta collaborazione perché la misura del tempo, così come la definizione di tutte le unità di misura, è quanto di più internazionale si possa immaginare. I membri si incontrano ogni 4 anni e, nel corso di queste conferenze generali dei pesi e misure, vengono esaminate anche le nuove tecnologie.
È stato così che, nel 1967, si è deciso di sostituire la rotazione della Terra con le vibrazioni dell’atomo di cesio, che sono diventate la base della scala atomica dei tempi. È questo orologio atomico super-preciso che determina il tempo universale coordinato Utc che è utilizzato ovunque. Tuttavia, non possiamo dimenticare che viviamo sul pianeta Terra e vorremmo che il tempo scandito dall’orologio atomico fosse allineato con la rotazione del nostro pianeta. Purtroppo, però, complice la complessa interazione con la Luna, la rotazione della Terra non è precisissima e succede che accumuli ritardo rispetto all’orologio atomico. Per correggere questo sfasamento, nel 1972 era stato deciso di aggiungere al tempo coordinato universale un secondo “saltellante” quando lo scarto arriva a 0,9 secondi.
Da allora la procedura è stata ripetuta 27 volte, a intervalli irregolari e non facilmente prevedibili. Quando ho iniziato la mia carriera e dovevo allineare i tempi di arrivo dei raggi gamma per costruire le curve di luce dei pulsar, ricordo distintamente che dovevo sempre controllare quando erano stati aggiunti i leap seconds che non venivano conteggiati dall’orologio atomico a bordo del satellite. Se quarant’anni fa era una seccatura, adesso, per la nostra società digitale e interconnessa, è un significativo aggravio del sistema informatico mondiale. Ora che le transazioni commerciali si giocano sulle frazioni dei millisecondi, è sempre più costoso inserire questo saltino nel computo del tempo e i primi a lamentarsi sono i giganti come Google e Meta, che temono crash informatici.
Considerate le tante critiche, si è quindi iniziato a pensare se l’inserimento del secondo saltellante fosse veramente necessario. I militari americani che gestiscono il Gps, per esempio, hanno deciso di farne a meno. Sul problema si è dibattuto a lungo: cambiare lo status quo deciso a livello mondiale non è semplice, ma la conferenza tenutasi a Parigi a novembre ha votato a maggioranza che, dal 2035, i secondi saltellanti non verranno più aggiunti, si dovrà trovare un altro metodo per sincronizzare la rotazione della Terra con le vibrazioni dell’atomo di cesio.
Le conseguenze di questa decisione, che gli addetti ai lavori hanno definito storica, non saranno neanche minimamente apprezzabili per la popolazione, ma la storia dei secondi saltellanti è un esempio di come tutta l’umanità sia costantemente confrontata con un problema così immateriale, ma così importante, come la misura del tempo. In effetti, capire la natura del tempo, che scorre sempre in una sola direzione, è una sfida che ci accompagna dalla notte dei tempi ed è stata affrontata da filosofi, fisici, matematici.
Non si contano gli autori che hanno scritto libri affascinanti sul fluire del tempo. Ne ho scelti due che affrontano l’argomento in modi completamente diversi. Da un lato, l’approccio di Massimo Della Valle, un astrofisico che nel suo Il tempo della luce vede il tempo come la quarta dimensione dell’universo, dall’altra Julian Barbour, un fisico, che nel suo Il punto di Giano sfrutta la caratteristica bifronte del dio romano per immaginare dove nell’universo il tempo possa scorrere nei due sensi.
Entrambi gli autori hanno un approccio storico, partono dalle origini, dai filosofi greci per arrivare fino a noi, ma si muovono su un diverso livello di approfondimento. Il tempo della luce è una chiacchierata che esamina la luce in tutte le sue accezioni, concludendo che, nell’universo, il mio ora non è il tuo perché la luce viaggia a una velocità elevatissima ma finita. Una caratteristica che rende gli astronomi archeologi del cosmo liberi dalla sincronizzazione, perché nessuno penserebbe di fissare un incontro con Cleopatra o la regina Nefertiti.
Per contro, Il punto di Giano è una riflessione profonda e articolata sul concetto di entropia, sviscerata in un corposo capitolo sulla nascita della termodinamica. Barbour deve essere una persona che ama l’ordine e proprio non gli piace l’idea che l’universo evolva verso una situazione di sempre maggior disordine, lui preferisce pensare che l’universo vada verso un futuro più complesso governato dall’entassia, una grandezza che diminuisce nel tempo. Un’interpretazione che potrebbe piacere alla frazione della popolazione che viene rimproverata perché disordinata. Pensate che bello rispondere che il caos della vostra scrivania è un esempio di complessità. Scherzi a parte, Barbour è un veterano dell’esplorazione del concetto del tempo e le sue idee, certo non convenzionali, fanno pensare e rendono stimolante la lettura delle sue riflessioni.