La materia s’ammassa, nell’universo. Anche gli oggetti li ritroviamo “ammassati”. E a seconda del tipo d’oggetti, danno origine a diversi tipi d’ammassi – o cluster, come si dice in inglese. Quando sono stelle, abbiamo gli ammassi stellari. Quando sono intere galassie, gli ammassi di galassie. E a volte sono entrambi protagonisti della stessa storia. È il caso dello studio condotto da un team dell’Università di Stoccolma riportato il mese scorso sulle pagine di Monthly Notices of the Royal Astronomical Society: hanno usato un lontano ammasso di galassie come una “lente” sulla quale posare l’occhio di Jwst – il James Webb Space Telescope – per osservare alcuni ancora più lontani ammassi stellari – o più precisamente stellar clumps, addensamenti di stelle in formazione antichissimi. I più lontani si trovano in una galassia risalente ad appena 680 milioni di anni dopo il Big Bang: vale a dire che la loro luce, per giungere fino a noi, ha impiegato qualcosa come 13 miliardi di anni. Mai prima d’ora era stato possibile esaminare ammassi stellari così antichi.
Ma torniamo alla “lente” impiegata per questo studio: situata a poco più di cinque miliardi d’anni luce da noi, è un ammasso di galassie, dicevamo, di nome Smacs 0723. Per chi abbia seguito l’avventura del telescopio spaziale Webb la sigla non è nuova: quella di Smacs 0723 è infatti la prima immagine scientifica prodotta da Jwst, presentata al mondo in anteprima assoluta l’estate scorsa dallo stesso presidente degli Stati Uniti Joe Biden. E fin da subito era stato salutato come una straordinaria lente naturale sul cosmo, una lente gravitazionale: il complemento ideale per spingere lo sguardo di Webb ai limiti dello spazio e del tempo.
«Gli ammassi di galassie che abbiamo esaminato sono così massicci da piegare i raggi di luce che passano attraverso il loro centro, come previsto da Einstein nel 1915. E questo a sua volta produce una sorta di effetto “lente d’ingrandimento”: le immagini delle galassie sullo sfondo vengono ingrandite», spiega la prima autrice dell’articolo pubblicato su Mnras, Adélaïde Claeyssens, ricercatrice all’Università di Stoccolma.
Ed è proprio questo effetto ingrandente, sommato all’eccezionale risoluzione del telescopio spaziale Webb, ad aver consentito di distinguere, in alcune lontanissime galassie alle spalle dell’ammasso Smacs 0723 – la presenza, appunto, di stellar clumps: sono quei grumi di luce – una sorta di “brufoli” – che s’intravedono nei quattro riquadri ingranditi dell’immagine di apertura. Qui a fianco, nel pannello di destra, li vediamo evidenziati dai circoletti bianchi tratteggiati: ciascuno di quei rosei puntini è un’antichissima culla di stelle, e riuscire finalmente a osservarli per la prima volta permette agli astronomi di studiare il nesso tra la loro formazione e l’evoluzione delle galassie pochi milioni di anni dopo il Big Bang. Per la prima volta, dicevamo: lo si capisce bene dal confronto con il pannello a sinistra, che mostra la stessa porzione di cielo ritratta dal telescopio spaziale Hubble, dove i clumps non si riescono a distinguere.
«Le immagini del James Webb Space Telescope mostrano che ora siamo in grado di rilevare strutture molto piccole all’interno di galassie molto distanti, e che possiamo vedere questi clumps in molte galassie. Questo telescopio rappresenta un punto di svolta per l’intero campo della ricerca e ci aiuta a capire come si formano ed evolvono le galassie», conclude un’altra fra le autrici dello studio, Angela Adamo, astronoma italiana (si è laureata a Padova) oggi ricercatrice all’Università di Stoccolma.
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Star formation at the smallest scales; A JWST study of the clump populations in SMACS0723”, di Adélaïde Claeyssens, Angela Adamo, Johan Richard, Guillaume Mahler, Matteo Messa e Miroslava Dessauges-Zavadsky