Le strutture che popolano l’universo si sono formate in modo gerarchico. Questo è uno dei capisaldi del modello cosmologico standard, o modello Lamba-Cdm – che sta per Lambda cold dark matter, a indicare che la materia oscura che costituisce l’80 per cento della materia esistente è fredda e costituita di particelle poco interagenti con la materia ordinaria –, e che riguarda appunto l’organizzazione, in funzione del tempo, della materia nell’universo. Materia visibile e invisibile (o oscura). E uno dei modi per capire se questo modello teorico è corretto, è confrontare le sue previsioni con quello che osserviamo davvero. L’ha fatto in uno studio pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society un team di ricercatori, guidato da Elise Darragh-Ford della Stanford University, usando come oggetto del confronto degli ammassi di galassie. I risultati sembrano confermare che possiamo ancora fidarci dell’attuale modello cosmologico.
Cominciamo con la materia oscura. Per come la vediamo oggi, si tratta di una sorta di immensa ragnatela che si distribuisce in tutto il cosmo e formata da filamenti e nodi, all’interno dei quali si creano delle buche di potenziale gravitazionale che costituiscono degli attrattori per la materia barionica, quella normale. Perché, in effetti, la materia oscura è questo per la materia visibile: una sorta di culla, all’interno della quale possono comodamente sostare galassie, ammassi di galassie e in generale i barioni che compongono la materia luminosa che vediamo, e quella di cui abbiamo esperienza quotidiana. Il modello cosmologico standard descrive, quindi, esattamente, come dalle prime fluttuazioni di densità del plasma primordiale si siano via via aggregate strutture sempre più massicce, per effetto della forza di gravità. Significa che, se guardiamo l’universo 5 miliardi di anni fa, o dieci, o adesso, le strutture che troveremo saranno diverse e, in particolare, avranno masse e concentrazioni di materia diverse. Quantificabili precisamente nella teoria, calcolabili empiricamente con le osservazioni. Confrontarle, però, non è così semplice.
E farlo usando gli ammassi di galassie, secondo gli autori di questo studio, è una buona idea.
«Secondo il paradigma del Lambda-Cdm, il modello cosmologico più accreditato, le strutture cosmiche si formano per via di scontri tra oggetti più piccoli o per il loro accrescimento», spiega a Media Inaf Elena Rasia, ricercatrice all’Inaf di Trieste e coautrice dello studio. «Gli ammassi di galassie, che sono gli oggetti astronomici più massicci, sono anche quelli che si sono formati più recentemente. Durante questa fase di formazione, la loro struttura interna, ossia la distribuzione della massa in funzione della distanza dal centro, cambia. Il loro profilo di massa è modellabile con un profilo analitico introdotto da Navarro, Frenk e White quasi 25 anni fa. Questo dipende da due parametri: la normalizzazione, che è legata al valore della densità al centro dell’ammasso, e la concentrazione, che è legata alla forma del profilo. Nel nostro lavoro confrontiamo la concentrazione osservata con quella attesa dal modello Cdm a massa fissata».
Gli ammassi di galassie sono quindi le strutture gravitazionalmente legate più grandi che esistano, il massimo che la ragnatela cosmica di materia oscura è stata in grado di creare, finora. Grazie alle simulazioni costruite a partire dalla teoria, è possibile ricostruire con precisione come si sono formati e come sono cresciuti nel tempo. Per vederli nell’universo, invece, si possono cercare le loro emissioni ai raggi X. Gli ammassi di galassie, infatti, sono un’enorme vasca di plasma caldo all’interno della quale si collocano migliaia di galassie di varie forme, età e dimensioni, tenute insieme dalla gravità. Il plasma caldo che le circonda, e che riempie tutto l’alone di materia oscura che ospita la struttura, emette – proprio per le condizioni termodinamiche in cui si trova – ai raggi X.
Nello studio, i ricercatori hanno ricostruito la distribuzione di massa all’interno degli ammassi usando la loro emissione X osservata dal telescopio spaziale Chandra. Non tutti gli ammassi però si prestano bene a questa operazione: bisogna selezionare quelli “dinamicamente rilassati”, ovvero in cui l’energia del gas al loro interno è bilanciata dalla forza di gravità. Per quanto riguarda gli ammassi simulati, gli autori si sono affidati ai risultati del Three Hundred Project, una simulazione di 324 grandi ammassi di galassie che riproduce la fisica delle galassie che li compongono e del gas che sta loro intorno. Da qui hanno calcolato come dovrebbe essere l’emissione di raggi X di ciascun ammasso simulato, e poi hanno selezionato quelli da confrontare con i dati reali applicando una selezione che tenesse conto dei criteri osservativi reali e delle limitazioni di questi.
«La peculiarità di questa analisi, quello che la distingue da lavori precedenti, è che i campioni di ammassi osservati e quelli teorici sono stati definiti usando criteri molto simili», continua Rasia. «Tipicamente in letteratura questi confronti sono svolti selezionando il campione simulato in base alla massa e al redshift. Noi abbiamo aggiunto una selezione che includesse dei controlli anche sull’aspetto morfologico degli ammassi. Abbiamo prodotto immagini di flusso in banda X degli ammassi simulati, usate per estrarre i tre parametri morfologici adottati anche nelle osservazioni: la simmetria della distribuzione del gas, il valore del picco della densità del gas e l’allineamento dei vari livelli di flusso».
Il confronto, poi, si è basato su tre proprietà specifiche e misurabili: la massa dell’ammasso, la sua concentrazione centrale e il redshift, una misura della distanza ma anche dell’età che l’universo aveva quando la luce che osserviamo è partita. Nel complesso, i ricercatori hanno trovato che gli ammassi sono diventati più concentrati al centro nel corso del tempo, mentre fra gli ammassi coevi quelli meno massicci sono più concentrati di quelli più massicci. E, cosa più importante, le proprietà osservate nelle simulazioni erano sempre simili a quelle trovate nei dati reali. In altre parole, la teoria funziona. E per ora, il modello cosmologico che stiamo usando è salvo.
«Il nostro lavoro conferma che il modello cosmologico del Lamba-Cdm riproduce le caratteristiche strutturali degli ammassi osservati, ma sottolinea anche l’importanza di paragonare campioni osservati e campioni simulati con accortezza» conclude la ricercatrice. «E l’ottimo accordo trovato è una verifica stessa del modello».
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “The Concentration–Mass relation of massive, dynamically relaxed galaxy clusters: agreement between observations and ΛCDM simulations”, di Elise Darragh-Ford, Adam B Mantz, Elena Rasia, Steven W Allen, R Glenn Morris, Jack Foster, Robert W Schmidt e Guillermo Wenrich