GRAZIE AD ALMA, STIMATO IL TASSO DI IONIZZAZIONE

Raggi cosmici e formazione stellare

Grazie alle osservazioni ad alta risoluzione spaziale di Alma, è stato stimato il tasso di ionizzazione dei raggi cosmici all’interno di due regioni di formazione stellare. Contestualmente, sono state ottenute le prime mappe del tasso di ionizzazione dei raggi cosmici, responsabili di influenzare la formazione di stelle e pianeti. Lo studio è guidato da Giovanni Sabatini dell'Inaf di Arcetri

     04/05/2023

Questa ampia veduta della Nebulosa della Carena, una regione di formazione stellare nei cieli meridionali, è stata scattata in luce infrarossa utilizzando la telecamera Hawk-I del Very Large Telescope dell’Eso. Crediti: Eso/T. Preibisch

I raggi cosmici sono particelle cariche che si muovono ad altissima velocità all’interno della Galassia e influenzano in modo drastico la formazione di stelle e pianeti, contribuendo a determinare la composizione chimica del gas presente nelle regioni di formazione stellare.

La formazione di ingredienti chimici necessari per lo sviluppo della vita – acqua e molecole organiche complesse – sembra essere favorita in ambienti in cui la concentrazione di ioni è più alta che in altri. I raggi cosmici rappresentano una sorgente fondamentale di ionizzazione del mezzo interstellare e giocano quindi un ruolo chiave anche nel processo di formazione stellare stesso. 

Grazie alle osservazioni estremamente accurate effettuate con Alma, è stato possibile ottenere alcuni risultati senza precedenti in questo campo. Da un lato, è stato stimato con grande accuratezza il tasso di ionizzazione dei raggi cosmici all’interno di due grosse regioni di formazione stellare relativamente vicine (tra i 4200 e i 6200 anni luce), facendo emergere che esso dipende fortemente dalle condizioni globali più che da quelle locali delle regioni di formazione stellare. Contestualmente, sono state ottenute le prime mappe del tasso di ionizzazione dei raggi cosmici, che hanno permesso di studiare la variazione del tasso di ionizzazione all’interno delle stesse regioni di formazione stellare.

Questi risultati sono stati presentati nello studio pubblicato recentemente da Giovanni Sabatini dell’Inaf di Arcetri, Stefano Bovino dell’Università di Concepción (Cile) e Elena Redaelli dell’Istituto Max Planck di Garching (Germania), risultato di cinque anni di lavoro condizionati dal rallentamento forzato subito (anche) dalle osservazioni astronomiche nel 2020 a causa della pandemia.

Sull’origine dei raggi cosmici il dibattito è ancora aperto. Una parte degli scienziati sostiene che vengano prodotti principalmente dalle esplosioni di supernove o accelerati nei getti delle stelle in formazione, ma su un punto concorda tutta la comunità scientifica: sono gli ingredienti fondamentali per l’evoluzione chimica e fisica delle galassie. Quando una nube molecolare inizia una contrazione che darà vita a una nuova stella, la sua densità aumenta fino a diventare talmente elevata (dieci/centomila particelle per centimetri cubo) che i fotoni più energetici del visibile, esterni alla nube, non riescono più a penetrare nelle regioni più interne.

In questo contesto, i raggi cosmici sono le uniche particelle capaci di penetrare all’interno delle nubi molecolari, e interagendo con le molecole che ne costituiscono il gas, ne cambiano il grado di ionizzazione, ovvero il  numero di elettroni liberi nel mezzo interstellare. La frequenza con cui questo processo avviene – il numero di ionizzazioni al secondo – rappresenta appunto il tasso di ionizzazione dei raggi cosmici, una quantità “non osservabile”. Gli astronomi non potranno infatti mai puntare i loro telescopi e osservare direttamente questa quantità come si fa per la luminosità di una stella, ma la devono derivare, per esempio, dall’abbondanza di alcune particolari molecole la cui formazione è direttamente collegata alla presenza e agli effetti dei raggi cosmici. 

Fino a oggi, le osservazioni di molecole adatte a questo tipo di studio erano molto rare e costituite principalmente da singoli spettri che non ci davano alcuna informazione su come il tasso di ionizzazione dei raggi cosmici stesse variando nelle diverse zone di una nube molecolare. L’aumento della frazione di ionizzazione e della concentrazione di ioni in una nube che sta collassando ha inoltre una grande importanza sul processo di formazione di stelle e pianeti se consideriamo la presenza dei campi magnetici galattici. Proprio come l’ago di una bussola si orienta sotto l’effetto del campo magnetico terrestre, così gli ioni risentono della presenza di un campo magnetico che permea una nube. Più è forte questa interazione ioni-campo-magnetico, più il campo magnetico è “accoppiato” alla componente carica del gas.

Durante il collasso gravitazionale della nube avremo dunque una parte del gas (quella neutra e disaccoppiata dal campo magnetico) che si condensa per effetto dell’attrazione gravitazionale, mentre la parte carica del gas (accoppiata al campo magnetico), tenderà a ostacolare il collasso con una forza opposta a quella gravitazionale. Il collasso quindi sarà rallentato e la stella nascente avrà bisogno di più tempo per poter raggiungere il limite di massa necessario all’innesco delle prime reazioni termonucleari nel suo nucleo (momento che definisce la nascita di una nuova stella).

Giovanni Sabatini, assegnista di ricerca all’Inaf di Arcetri. Crediti: Inaf/Sabatini.

«La formazione degli ingredienti chimici necessari per lo sviluppo della vita come la conosciamo (le molecole organiche complesse interstellari) sembra iniziare già in ambienti giovanissimi in cui le stelle non si sono ancora formate. Questo risultato, primo nel suo genere, è molto importante ed è frutto di un lungo lavoro durato più di cinque anni», racconta il primo autore dello studio Giovanni Sabatini, esperto di astrochimica delle regioni di formazione stellare. «L’unicità, a oggi, di questo risultato dipende dal contesto teorico e dal numero e dal tipo di molecole osservate. Per farvi un esempio concreto e darvi dei numeri, una di esse, la prima forma deuterata dello ione  H3+ (l’H2D+) ha richiesto, da sola, quasi un giorno di osservazione con Alma. Per l’esattezza, 22 ore e 54 minuti: un tempo molto difficile da ottenere con un telescopio di punta come Alma» aggiunge Sabatini.

Sfortunatamente per chi osserva il cielo da terra, i raggi cosmici a basse energie (energie inferiori a 1 TeV) sono anche quelli più difficili da studiare a causa dell’effetto del vento solare che ne cambia l’energia e la traiettoria. «Se potessimo annullare tutti i limiti osservativi dei telescopi attualmente in uso, il prossimo passo sarebbe quello di andare a ricercare la prima evidenza osservativa che anche il campo magnetico in questi oggetti è in accordo con la variazione del tasso di ionizzazione dei raggi cosmici, come ultima fondamentale evidenza osservativa che collega la fisica dei raggi cosmici al processo di formazione stellare e planetario» conclude Sabatini. «Speriamo, nei prossimi due o tre anni, di disporre di una tecnologia capace di farci compiere anche questo eccitante passo avanti».

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