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Vita dopo la tempesta (solare)

Nuovi esperimenti chimici hanno dimostrato che le particelle espulse dal Sole durante la sua intensa attività primordiale potrebbero aver favorito la nascita della vita, innescando le reazioni che hanno prodotto i primi amminoacidi e acidi carbossilici necessari alla costruzione delle prime molecole organiche

     05/05/2023

Rappresentazione artistica della Terra primordiale. Crediti: Nasa

Ricorderete la famosa zuppa primordiale di Miller e Urey, descritta in qualunque libro di biologia per spiegare l’origine della vita. Un esperimento importantissimo grazie al quale si era scoperto che, unendo in un contenitore chiuso metano, ammoniaca, acqua e idrogeno molecolare, e bombardando il gas con scariche di fulmini, si potevano formare almeno una ventina di amminoacidi essenziali per originare la vita. L’esperimento partiva dall’ipotesi (o meglio, dalla convinzione) che l’atmosfera primordiale contenesse in prevalenza questi elementi. Gli studi degli ultimi settant’anni, però, hanno mostrato che la situazione era un po’ diversa: l’atmosfera conteneva più che altro anidride carbonica e azoto molecolare e il Sole era molto più debole. Un nuovo articolo pubblicato sulla rivista Life ha dimostrato che le particelle solari, scontrandosi con i gas della prima atmosfera terrestre, possono formare aminoacidi e acidi carbossilici, ovvero i costituenti fondamentali delle proteine e delle molecole organiche.

Alla luce delle nuove conoscenze sulle caratteristiche primordiali del Sole e del nostro pianeta, in sostanza, negli ultimi anni gli scienziati hanno cercato di dare risposta a due domande fondamentali. La prima, come ha fatto la terra a scaldarsi a sufficienza per sostenere la vita dal momento che il Sole irraggiava più debolmente, e la seconda quali reazioni hanno potuto formare, a partire dai gas allora presenti in atmosfera, i primi mattoni della vita. Andiamo quindi con ordine.

Al giorno d’oggi, lo sappiamo bene, la Terra trattiene calore attraverso l’atmosfera grazie all’effetto serra prodotto da alcuni gas (fra cui anidride carbonica e il metano), che trattengono le radiazioni solari riflesse dal suolo. I modelli di evoluzione stellare mostrano però che quando tutto ebbe inizio, e in particolare nei suoi primi 100 milioni di anni di vita, il Sole era circa il 30 per cento più debole e irradiava molto meno di quanto non faccia oggi. Secondo gli stessi modelli, però, in quella fase il Sole era anche molto più attivo e produceva costanti eruzioni di materiale e di particelle che riuscivano a penetrare la magnetosfera terrestre ancora in formazione. Produceva, secondo i calcoli, circa un “superflare” ogni 3-10 giorni. Cominciamo quindi a rispondere al primo punto: in uno studio del 2016, un gruppo di ricercatori aveva dimostrato che le particelle energetiche provenienti dalle eruzioni solari primordiali che si scontravano con l’atmosfera innescavano reazioni chimiche in grado di scaldare l’atmosfera stessa. L’azoto molecolare – cioè due atomi di azoto legati insieme in una molecola, che all’epoca costituiva il 90 per cento dell’atmosfera (rispetto al 78 per cento di oggi) – può essere spezzato in singoli atomi di azoto dalle particelle emesse dal Sole. L’azoto libero, a sua volta, si può scontrare con l’anidride carbonica separandola in molecole in monossido di carbonio e ossigeno. L’azoto e l’ossigeno liberi, infine, si possono combinare in protossido di azoto, un gas serra circa 300 volte più potente dell’anidride carbonica. Nello studio si mostrava che se l’atmosfera primordiale avesse avuto meno dell’1 per cento di protossido di azoto rispetto all’anidride carbonica, avrebbe riscaldato il pianeta a sufficienza per l’esistenza di acqua liquida. Queste reazioni, in pratica, erano in grado di creare una vera incubatrice di vita nella Terra primordiale.

Animazione che mostra un flare solare con l’espulsione di materiale e particelle energetiche. Crediti: Nasa Goddard Space Flight Center

A questo punto, i ricercatori si sono chiesti se i fulmini utilizzati da Miller e Urey fossero ancora i migliori candidati a innescare le reazioni chimiche che hanno formato le molecole organiche. E giungiamo quindi alla seconda questione: sebbene molecole come anidride carbonica e azoto molecolare prevalenti nell’atmosfera primordiale possano formare amminoacidi al pari di quelle utilizzate da Miller e Urey nel loro esperimento, per rompere i propri legami e dare origine a qualcos’altro richiedono più energia. Per questo, i nuovi esperimenti hanno vagliato la possibilità che fossero le stesse particelle emesse dal Sole a produrre, in modo più efficiente, amminoacidi e acidi carbossilici. Per dimostrarlo, i ricercatori hanno creato in laboratorio una miscela di gas simile a quella presente nell’atmosfera della Terra primitiva e formata da anidride carbonica, azoto molecolare, acqua e una quantità variabile di metano. Questo perché la percentuale di metano nell’atmosfera primordiale della Terra non è nota con precisione, anche se si pensa che fosse bassa. Hanno poi bombardato le miscele di gas prima con dei protoni che simulavano le particelle solari, poi anche con scariche di scintille (simulando i fulmini che innescavano le reazioni secondo l’esperimento di Miller e Urey). Già con una percentuale di metano era superiore allo 0.5 per cento, le miscele colpite dai protoni (quindi dalle particelle solari) producevano quantità rilevabili di amminoacidi e acidi carbossilici, mentre i fulmini richiedevano una concentrazione di metano del 15 per cento circa prima di innescare reazioni di interesse. Ne producevano, comunque, con un tasso circa un milione di volte inferiore a quello dei protoni.

A parità di condizioni, quindi, le particelle solari sembrano essere una fonte di energia più efficiente dei fulmini. Una conclusione che si incastra bene anche con un altro tassello, cioè il fatto che in un’atmosfera più fredda come quella primordiale, i fulmini dovevano essere molto meno frequenti.

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