Nei primi anni dopo il Big Bang, l’universo era così caldo e denso che luce e materia erano fortemente accoppiate. Non esisteva l’una senza l’altra. Continuando a espandersi, si raffreddò fino a raggiungere una temperatura di circa 3mila gradi. Fu allora, circa 380mila anni dopo l’inizio di tutto, che i nuclei di idrogeno ed elio riuscirono finalmente a catturare gli elettroni liberi per formare atomi neutri. Così, tra un atomo e l’altro, la radiazione riuscì a fuggire e a propagarsi liberamente, non più intrappolata nel plasma primordiale.
Quella radiazione, che di fatto rappresenta la prima “istantanea” dell’universo, è conosciuta come radiazione cosmica di fondo a microonde, o radiazione fossile, e porta con sé l’impronta della materia primordiale, di come all’epoca era distribuita nello spazio.
Successivamente, si formarono le prime stelle e galassie ma il gas neutro continuava a nasconderle. Ci volle un altro miliardo di anni perché il gas fosse nuovamente ionizzato, e l’universo poté finalmente diventare trasparente. Questa fase cruciale dell’evoluzione è chiamata epoca della reionizzazione. Ma quali sono state le sorgenti responsabili della reionizzazione? Come hanno cambiato il volto dell’universo?
Un nuovo studio basato sulle osservazioni del telescopio spaziale James Webb ha fornito delle risposte sorprendenti a queste domande, riportate in tre articoli pubblicati su The Astrophysical Journal il 12 giugno scorso.
Lo studio è stato coordinato da Simon Lilly del Politecnico federale di Zurigo (Eht), che ha sfruttato la potenza del telescopio Webb per creare un mosaico di immagini ad alta risoluzione che ha permesso di guardare molto indietro nel tempo, fino a un’epoca risalente alla fine della reionizzazione, circa 900 milioni di anni dopo il Big Bang. In quel momento l’universo era abbastanza trasparente da permettere alla luce di passare; tuttavia, erano ancora presenti regioni di gas opaco che bloccavano la radiazione.
Al centro del mosaico spicca il quasar J0100+2802, un buco nero supermassiccio attivo ed estremamente luminoso. Questo quasar si trova a 12,8 miliardi di anni luce e funge da faro cosmico per illuminare il gas intergalattico lungo la nostra linea di vista. La radiazione che vediamo ha potuto attraversare regioni di spazio in cui il gas l’ha parzialmente bloccata, e altre in cui l’universo già trasparente ha permesso alla luce di passare liberamente. «Illuminando il gas lungo la nostra linea di vista, il quasar ci fornisce ampie informazioni sulla composizione e sullo stato del gas», spiega Anna-Christina Eilers del Mit di Cambridge, Massachusetts, prima autrice di una delle tre pubblicazioni.
I ricercatori hanno poi osservato un campione di galassie risalenti alla fine dell’epoca della reionizzazione, posizionate lungo la linea della radiazione emessa dal quasar. L’incredibile potenza di Webb ha consentito di osservare che, proprio intorno a quelle galassie, sono presenti “bolle” di gas trasparente. «Non solo Webb mostra chiaramente che queste regioni trasparenti si trovano intorno alle galassie, ma abbiamo anche misurato quanto sono grandi», racconta Daichi Kashino dell’Università di Nagoya in Giappone, autore principale del primo articolo del team. Queste regioni di gas trasparente, dal raggio medio di 2 milioni di anni luce, sono gigantesche rispetto alle galassie, che hanno dimensioni relativamente ridotte. In altre parole, Webb ha osservato le galassie nel processo di pulizia dello spazio intorno a loro, alla fine dell’epoca di reionizzazione. Queste bolle trasparenti sono via via diventate più grandi, si sono unite e infine, nei cento milioni di anni successivi, l’universo è diventato completamente trasparente alla radiazione elettromagnetica.
Il team ha così dimostrato che le responsabili della reionizzazione del gas sono state proprio le galassie, grazie anche alla loro turbolenta attività di formazione stellare, che ha riscaldato e ionizzato il gas opaco. «Queste galassie sono più caotiche di quelle dell’universo vicino», afferma Jorryt Matthee del Politecnico di Zurigo e primo autore del secondo lavoro del team. «Webb dimostra che stavano formando attivamente stelle e devono aver generato molte supernove. Hanno avuto una giovinezza piuttosto movimentata».
Lo studio ha dimostrato anche la potenza unica di combinare le immagini convenzionali della NirCam (Near-Infrared Camera) di Webb con i dati della spettroscopia a largo campo dello stesso strumento, che fornisce uno spettro di ogni oggetto presente nelle immagini.
I ricercatori osserveranno altri cinque campi grandi come questo, in ognuno dei quali è presente un quasar al centro. A dire il vero, l’osservazione di più campi sarebbe servita proprio per ottenere una prova definitiva di quanto osservato in prima battuta, cioè che le galassie sono responsabili della reionizzazione. Ma i risultati ottenuti già dalla prima analisi sono stati così convincenti che il team ha deciso di voler da subito condividere la scoperta. «Ci aspettavamo di identificare qualche decina di galassie che esistevano durante l’era della reionizzazione, ma siamo riusciti a individuarne 117», conclude Kashino. «Webb ha superato le nostre aspettative».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “EIGER. I. A Large Sample of [O iii]-emitting Galaxies at 5.3 < z < 6.9 and Direct Evidence for Local Reionization by Galaxies” di Daichi Kashino, Simon J. Lilly, Jorryt Matthee, Anna-Christina Eilers, Ruari Mackenzie, Rongmon Bordoloi, and Robert A. Simcoe
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “EIGER. II. First Spectroscopic Characterization of the Young Stars and Ionized Gas Associated with Strong Hβ and [O iii] Line Emission in Galaxies at z = 5–7 with JWST” di Jorryt Matthee, Ruari Mackenzie, Robert A. Simcoe, Daichi Kashino, Simon J. Lilly, Rongmon Bordoloi, and Anna-Christina Eilers
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “EIGER. III. JWST/NIRCam Observations of the Ultraluminous High-redshift Quasar J0100+2802” di Anna-Christina Eilers, Robert A. Simcoe, Minghao Yue, Ruari Mackenzie, Jorryt Matthee, Dominika Ďurovčíková, Daichi Kashino, Rongmon Bordoloi, and Simon J. Lilly