Sei molecole di anidride carbonica più sei molecole di acqua più luce, che danno una molecola di glucosio e sei molecole di ossigeno. Quella che avete appena letto è la formula della fotosintesi clorofilliana ossigenica, senza dubbio il più importante processo bio-chimico che avviene da circa 3,5 miliardi di anni a questa parte sulla Terra. Conosciuta ai più semplicemente col nome di fotosintesi, il processo prevede una serie di reazioni di ossido-riduzione attraverso le quali piante, alghe e alcune specie di batteri – organismi chiamati collettivamente fotoautotrofi – ottengono energia chimica, immagazzinata nella materia organica, a partire dall’energia della luce della nostra stella, il Sole.
Una delle domande che gli scienziati si pongono da tempo riguardo a questo processo di sintesi è quale sia la quantità minima di energia richiesta per avviarlo. Una risposta al quesito arriva ora grazie a una recente ricerca condotta all’interno del Lawrence Berkeley National Laboratory, negli Usa, da un team di scienziati dell’Università della California – Berkeley.
I risultati dello studio, pubblicato ieri sulle pagine della rivista Nature, suggeriscono che la fotosintesi sia sensibile alla più piccola quantità di energia possibile, ovvero all’energia contenuta nel singolo quanto di luce visibile che chiamiamo fotone. Si tratta di una scoperta non di poco conto, che oltre a consolidare la nostra attuale comprensione del processo fotosintetico migliora la nostra conoscenza circa il funzionamento degli organismi complessi su piccola scala, permettendo di entrare in un “dominio” della scienza dove la fisica quantistica e la biologia si intrecciano.
Sulla base dell’efficienza del processo nel convertire la luce solare in molecole organiche ricche di energia, gli scienziati hanno a lungo ipotizzato che un singolo fotone di luce visibile fosse tutto ciò che servisse per innescare le reazioni di trasferimento di elettroni tra le molecole coinvolte nella fotosintesi, creando infine gli ingredienti necessari per la produzione di sostanze organiche, principalmente carboidrati. Tuttavia, spiegano i ricercatori, fino ad ora nessuno ha mai sostenuto tale ipotesi con una dimostrazione. La gran parte degli studi sull’argomento hanno infatti riguardato principalmente le fasi successive del processo fotosintetico.
«Un’enorme quantità di lavori scientifici, teorici e sperimentali, sono stati condotti in tutto il mondo per capire cosa succede nel processo fotosintetico dopo l’assorbimento di un fotone. Nessuno di essi, tuttavia, ha preso in considerazione il primo step, ovvero l’attivazione della catena di reazioni» dice a questo proposito Graham Fleming, scienziato della Uc Berkeley e co-autore dello studio in questione «Questa, dunque, era ancora una domanda a cui occorreva dare una risposta dettagliata».
Inoltre, aggiungono i ricercatori, la maggior parte dei lavori scientifici condotti finora sono stati effettuati utilizzando impulsi laser e non luce solare. «C’è un’enorme differenza di intensità tra la luce laser e la luce solare» spiega Quanwei Li, ricercatore alla Uc Berkeley, tra gli autori dello studio. «Un tipico raggio laser focalizzato è un milione di volte più luminoso della luce solare. E anche se si riuscisse a produrre un raggio laser con un’intensità pari a quella della luce solare, esso sarebbe ancora molto diverso a causa di una proprietà quantistica della luce chiamata statistica dei fotoni. Inoltre, dal momento che in nessuno degli studi condotti finora è stato visto il fotone essere assorbito, non sappiamo cosa comporti l’utilizzo dell’uno o dell’altro tipo di fotone».
Per dimostrare che un singolo fotone fosse effettivamente in grado di avviare la fotosintesi, Fleming, Birgitta Whaley, ricercatrice al Berkeley Lab, e i loro rispettivi gruppi di ricerca hanno messo in piedi un esperimento che mescola principi di fisica quantistica e conoscenze approfondite di biologia cellulare e molecolare. Più nel dettaglio, i ricercatori hanno utilizzato una nuova tecnica di ottica quantistica che hanno applicato a campioni di molecole fotosensibili. La tecnica in questione è la conversione parametrica spontanea, un processo che porta alla generazione di coppie di fotoni entangled (chiamati fotone annunciatore e fotone annunciato). Molecole di Lh2 (light harvesting 2), uno dei due complessi proteici (l’altro è Lh1) che formano l’apparato di raccolta della luce (o fotosistema) dei batteri viola, costituivano invece il campione oggetto dell’indagine.
I batteri viola sono una classe di microrganismi che fanno fotosintesi clorofilliana anossigenica, un tipo di fotosintesi che differisce dalla “classica” fotosintesi ossigenica perché non utilizza come ingredienti di partenza acqua e, come suggerisce il nome, non produce ossigeno. A parte questi dettagli, per il resto il processo non è dissimile da quello che avviene negli altri organismi, e ciò perché tutti gli esseri fotosintetici condividono un antenato comune. L’utilizzo dei batteri viola come modello sperimentale è dunque utile per la comprensione del processo fotosintetico in generale.
Durante l’esperimento, il primo step è stato quello di creare la coppia di fotoni per conversione parametrica spontanea. A questo punto, bisognava sparare i due fotoni verso il campione ed essere certi che uno dei due lo colpisse. L’osservazione del primo fotone della coppia – chiamato fotone annunciatore (Herald photon, in inglese) – con un rivelatore altamente sensibile è stata la conferma che il secondo fotone – chiamato fotone annunciato – era in viaggio verso il campione in esame. Un altro rivelatore vicino al campione ha infine misurato il fotone a più bassa energia emesso dal complesso proteico Lh2 dopo l’assorbimento: la conferma che la molecola era stata attivata.
Per garantire che le osservazioni potessero essere attribuite all’assorbimento di un singolo fotone e che nessun altro fattore stesse influenzando i risultati, gli scienziati hanno analizzato in tutto più di 17 miliardi di eventi di rivelamento di fotoni annunciatori e oltre 1.5 milioni di eventi di rivelamento di fotoni fluorescenti.
«Questo lavoro ha dimostrato che si possono effettivamente fare molti esperimenti con i singoli fotoni. E questo è un punto molto, molto importante», conclude Whaley. «A questo punto dobbiamo chiederci cos’altro possiamo fare. Il nostro prossimo obiettivo è studiare il trasferimento di energia dai singoli fotoni lungo il complesso fotosintetico alle più brevi scale temporali e spaziali possibili».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Single-photon absorption and emission from a natural photosynthetic complex” di Quanwei Li, Kaydren Orcutt, Robert L. Cook, Javier Sabines-Chesterking, Ashley L. Tong, Gabriela S. Schlau-Cohen, Xiang Zhang, Graham R. Fleming & K. Birgitta Whaley