Un gruppo internazionale di ricercatori guidato dall’astrofisico Pierluigi Rinaldi dell’Università di Groningen ha rilevato per la prima volta la riga di emissione H-alfa in singole galassie durante l’epoca di reionizzazione.
Le galassie in cui è presente formazione stellare producono una grande quantità di fotoni ultravioletti, ma durante l’epoca di reionizzazione questi fotoni vengono assorbiti dal mezzo intergalattico. Il miglior tracciante per misurare il livello di formazione stellare è la riga di emissione H-alfa. Tale riga è caratteristica del salto quantico dell’elettrone di un atomo di idrogeno dal livello energetico n = 3 a n = 2. Ha una lunghezza d’onda di 656,281 nanometri ed è visibile nella parte rossa dello spettro elettromagnetico. Per le galassie con un elevato spostamento verso il rosso, questa riga nell’ottico viene spostata su lunghezze d’onda maggiori, nel vicino e medio infrarosso. Ed è proprio lì, in quella regione dello spettro elettromagnetico, che lo strumento Miri – acronimo di Mid-Infrared Instrument – a bordo del James Webb Space Telescope (Jwst), l’ha rilevata.
Lo studio che presenta la scoperta è stato accettato per la pubblicazione su The Astrophysical Journal e Media Inaf ha intervistato Rinaldi, il primo autore, per proporvi un’anticipazione dei risultati.
Avete rilevato, per la prima volta, emissione H-alfa da singole galassie all’epoca della reionizzazione. Di cosa si tratta?
«La detection di emissione H-alfa durante l’epoca della reionizzazione in galassie singole è estremamente importante per diversi motivi. Da un lato, ci dà l’idea di come questo tipo di ricerca possa ora essere svolto sistematicamente grazie al telescopio Jwst e in particolare grazie allo strumento Miri, che permette la detection di questa riga all’alba dell’universo primordiale. Prima del Jwst, questo non era possibile in singole galassie. Spitzer era l’unico strumento in grado di poter trovare questa riga a quei redshift, ma la sua risoluzione era di gran lunga inferiore rispetto a quello che possiamo permetterci ora col Jwst. Dall’altra parte, la detection di emissione H-alfa durante l’epoca della reionizzazione è estremamente importante perché ci permette di tracciare la storia di formazione stellare nelle galassie durante un periodo saliente della vita dell’universo, ovverosia quel momento in cui l’universo stesso passò dall’essere completamente “buio” (solo idrogeno neutro dopo la ricombinazione cosmica) all’essere completamente ionizzato (redshift pari a 6, ovvero un miliardo di anni dopo il Big bang) e pieno di galassie in grado di emettere fotoni capaci di raggiungerci oggi».
Perché non si riesce a vedere un’altra riga interessante, la Lyman-alfa (quella che corrisponde al salto dal livello energetico n = 2 a n = 1)?
«Questa domanda è interessantissima ed è la chiave del perché abbiamo deciso di studiare altre righe di emissione in questo studio (i.e., H-alfa e H-beta + [OIII]). La riga di emissione Lyman-alfa è una riga dalle proprietà molto particolari, ma allo stesso tempo soffre della presenza del mezzo intergalattico (Igm) neutro. Quindi più ci si spinge verso l’universo primordiale, quindi pieno di idrogeno neutro, più usare questa riga diventa complicato. Per anni le galassie Lyman Alpha Emitter sono state utilizzate per studiare l’universo ad alto redshift, ma i conteggi di queste galassie crollano drammaticamente a redshift maggiore di 7 (meno di 770 milioni di anni dopo il Big bang, ndr) a causa del fatto che i fotoni Lyman vengono immediatamente assorbiti una volta emessi nel mezzo intergalattico a quei redshift. Questo è il motivo per cui abbiamo deciso di usare righe nell’ottico come quelle di cui sopra: queste non soffrono della presenza dell’Igm come la Lyman-alfa e ci danno l’opportunità unica di spingere i nostri studi a redshift più elevati e di studiare l’universo primordiale».
Come è avvenuta l’osservazione?
«Come detto sopra, questa scoperta è stata possibile grazie all’utilizzo del Jwst e in particolare dello strumento Miri. In questo studio abbiamo utilizzato l’immagine più profonda dell’universo a 5.6 micron che è stata mai prodotta. Questi dati sono stati collezionati a dicembre scorso e sono parte del programma Miri Deep Imaging Survey (Midis), a cui partecipano numerosi astrofisici da diverse parti del mondo e fanno parte del Miri European Consortium».
Cosa comporta la vostra scoperta?
«La nostra scoperta apre le porte alla possibilità di studiare sistematicamente queste galassie nell’universo primordiale. Futuri studi ci permetteranno di collezionare una alta statistica per questo tipo di galassie e ci permetteranno di caratterizzare la storia di formazione stellare nelle galassie durante l’epoca della reionizzazione».
E adesso, quali sono i prossimi passi?
«Il prossimo step è sicuramente ottenere gli spettri per queste galassie e capire come queste abbiano giocato un ruolo fondamentale durante l’epoca della reionizzazione. La domanda è: questi forti emettitori sono i principali responsabili della reionizzazione dell’universo? Ancora non lo sappiamo, ma è l’oggetto di studio del nostro prossimo articolo che sarà presto fuori».
Per saperne di più:
- Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “MIDIS: Strong (Hb + [OIII]) and Ha emitters at redshift z≃7−8 unveiled with JWST/NIRCam and MIRI imaging in the Hubble eXtreme Deep Field (XDF)” di Rinaldi, K. I. Caputi, L. Costantin, S. Gillman, E. Iani, P. G. Perez Gonzalez, G. Oestlin, L. Colina, T. Greve, H. U. Noorgard-Nielsen, G. S. Wright, A. Alonso-Herrero, J. Alvarez-Marquez, A. Eckart, M. Garcia-Marin, J. Hjorth, O. Ilbert, S. Kendrew, A. Labiano, O. Le Fevre, J. Pye, T. Tikkanen, F. Walter, P. van der Werf, M. Ward, M. Annunziatella, R. Azzollini, A. Bik, L. Boogard, S. Bosman, A. Crespo, I. Jermann, D. Langeroodi, J. Melinder, R. Meyer, T. Moutard, F. Peissker, M. Topinka, E. van Dishoeck, M. Guedel, Th. Henning, P.-O. Lagage, T. Ray, B. Vandenbussche, C. Waelkens, R. Navarro-Carrera, V. Kokorev