Di scienza si legge, si scrive e si parla in inglese. Chi vuol fare della scienza il proprio mestiere, quindi, non può prescindere dalla conoscenza della lingua inglese come apriporta nel mondo della ricerca. Dall’inizio del dottorato in poi, scrivere i propri risultati scientifici o presentarli a una conferenza, scrivere richieste di fondi o avere accesso a strumenti internazionali (come laboratori, o telescopi), e soprattutto entrare a far parte di collaborazioni scientifiche internazionali, non ammette l’utilizzo della propria madrelingua. A meno che non sia inglese.
Una condizione, questa, che per alcuni costituisce un vero e proprio limite. Ricercatori che vedono i propri articoli rifiutati dalle riviste perché non sono scritti abbastanza bene, o che evitano di presentare il proprio lavoro a conferenze internazionali o al pubblico per la vergogna di dover parlare una lingua nella quale non si sentono a loro agio. È uscito oggi, su Plos Biology, uno studio statistico a riguardo: si tratta dei risultati di un sondaggio condotto su circa novecento ricercatori di diversa nazionalità. Emerge che i non madrelingua inglesi vivono o hanno vissuto, nella loro carriera accademica, svantaggi nello svolgimento di tutte le attività scientifiche prese in esame.
L’iniziativa è partita da uno sforzo congiunto di alcuni ricercatori dell’Università del Queensland, in Australia, e dell’Università della California, che hanno reclutato 908 ricercatori in scienze ambientali (in particolare ecologia, biologia evolutiva, biologia della conservazione e discipline correlate) che hanno pubblicato, come primi autori, almeno un articolo peer-reviewed in inglese, e provenienti infine da uno dei seguenti otto paesi: Bangladesh, Bolivia, Regno Unito, Giappone, Nepal, Nigeria, Spagna e Ucraina. Queste nazionalità sono state scelte e classificate in base al livello di conoscenza dell’inglese del paese secondo l’English Proficiency Index, e in base al reddito. La suddivisione risultava quindi la seguente: Bangladesh e Nepal con una bassa conoscenza dell’inglese e reddito medio-basso, Giappone con bassa conoscenza dell’inglese e reddito alto, Bolivia, Ucraina con moderata conoscenza dell’inglese e reddito medio-basso, Spagna con moderata conoscenza dell’inglese e reddito alto, e infine Nigeria e Regno Unito in cui l’inglese è la lingua ufficiale e il reddito è rispettivamente medio-basso ed elevato.
Gli aderenti hanno completato un sondaggio online in cui veniva chiesto loro l’impegno necessario a svolgere cinque categorie di attività scientifiche: lettura, scrittura, e pubblicazione di articoli scientifici, divulgazione e partecipazione a conferenze. Per quanto riguarda le scienze ambientali, è emerso che i non madrelingua inglesi, soprattutto quelli di nazionalità cui è stato assegnato un basso livello di conoscenza dell’inglese, hanno maggiori probabilità, rispetto ai madrelingua inglesi, di veder rifiutati i loro articoli dalle riviste a causa della qualità di scrittura. Nell’articolo si legge che il 38,1 per cento (in media) e il 35,9 per cento (in media) dei non madrelingua inglesi di nazionalità con moderata e bassa conoscenza dell’inglese, rispettivamente, ha subito un rifiuto dell’articolo a causa della scrittura in inglese, mentre solo il 14,4 per cento dei madrelingua inglesi ha avuto la stessa esperienza: la frequenza del rifiuto dell’articolo legato alla lingua è da 2,5 a 2,6 volte superiore per i non madrelingua. E se l’articolo non viene rifiutato, è molto più probabile che venga richiesta una revisione di lingua: gli “stranieri” rispetto all’inglese hanno 12,5 volte più probabilità di ricevere una richiesta di revisione, semplicemente a causa dell’inglese scritto. Molti di loro rinunciano anche a partecipare e presentare a conferenze internazionali perché non si sentono sicuri di comunicare in inglese. In generale, comunque, le difficoltà cominciano anche prima di arrivare alla pubblicazione o alla presentazione, perché i non madrelingua hanno bisogno di un tempo fino a due volte maggiore per leggere e scrivere e scrivere documenti e preparare presentazioni in inglese. Trovate tutti i numeri e le statistiche nell’infografica qui sopra.
I risultati che abbiamo visto riguardano, come abbiamo detto, le scienze biologiche. Vale lo stesso anche nell’astrofisica?
«Ho sempre pensato che fosse un problema molto serio», risponde a Media Inaf Sergio Campana, ricercatore Inaf e associate editor nella rivista Astronomy & Astrophysics. «In A&A gli articoli arrivano filtrati dell’editor-in-chief, che rimanda indietro articoli. Anche a me è capitato qualche volta, nonostante il filtro iniziale. Non è tanto rigettare il lavoro ma un chiedere agli autori di scriverlo meglio. Non viene dato un giudizio sul merito scientifico, ma sul fatto che si riesca a capire, senza travisare, il significato del lavoro. Solo a quel punto si riesce a dare un giudizio di merito. Su quasi mille lavori che ho guardato sarà successo poche volte. A posteriori, a lavoro accettato, praticamente tutti gli articoli di A&A vanno a un language editor (che però non è un esperto della materia) che cerca di migliorare l’inglese. Aggiungo anche che anche nella richiesta di fondi europei i non nativi inglesi sono penalizzati. Non ho dati, purtroppo, ma è innegabile che per dei fondi molto molto competitivi anche una lettura più piacevole aiuti i candidati».
Un problema che, come emerso nell’articolo di Plos, ha a che fare anche con la nazionalità. L’Italia, che non è stata inclusa nello studio, ha un English Proficiency Index che la colloca al primo posto della fascia moderata, esclusa per pochi punti dalla categoria superiore.
«Gli autori italiani in genere scrivono in maniera abbastanza chiara, almeno rispetto al resto dei non-native speakers (francesi, spagnoli, tedeschi eccetera)», aggiunge Laura Pentericci, anche lei ricercatrice Inaf e associate editor in A&A. «Non ho mai trovato particolari criticità, anche se ovviamente sono tante le variabili: spesso, ad esempio, arrivano articoli scritti da studenti in cui si nota chiaramente che il collega senior non ha letto e corretto quanto scritto. Ecco, questo non accade mai con gli autori italiani, segno che questi ci tengono molto a non presentare articoli scritti in maniera approssimativa. E a questo proposito segnalo che Inaf, per la seconda volta, sponsorizza la scuola per dottorandi “Scientific communication in astronomy”, che organizzo anche io, e in cui dedichiamo due giornate intere proprio alla scrittura di articoli scientifici, con lezioni ed esercitazioni».
Per saperne di più:
- Leggi su Plos Biology l’articolo “The manifold costs of being a non-native English speaker in science”, di Tatsuya AmanoI, Valeria Ramírez-Castañeda, Violeta Berdejo-Espinola, Israel Borokini, Shawan Chowdhury, Marina Golivets, Juan David Gonzalez-Trujillo, Flavia Montaño-Centellas, Kumar Paudel, Rachel Louise White e Diogo Veríssimo