Secondo qualunque definizione, un oggetto celeste può essere chiamato stella se soddisfa due condizioni: brillare di luce propria e raggiungere pressioni e temperature tali da saper innescare processi di fusione nucleare al centro. Le due cose sono intimamente connesse, dal momento che senza la fusione nucleare una stella non si accende. Forse, però, potrebbe essere giunto il momento di ampliare la definizione. Uno studio uscito su Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) riporta il ritrovamento, nelle immagini del James Webb Space Telescope (Jwst), di tre oggetti luminosi che potrebbero essere “stelle oscure”: oggetti teorici molto più grandi e luminosi del Sole alimentati da particelle di materia oscura che si annichiliscono. Se confermate, le stelle oscure potrebbero rivelare la natura della materia oscura.
Le tre candidate si chiamano Jades-GS-z13-0, Jades-GS-z12-0 e Jades-GS-z11-0, sono state osservate dal telescopio James Webb nell’ambito della Advanced Deep Extragalactic Survey (Jades) e catalogate, nel dicembre 2022, come galassie primordiali. Si tratta di oggetti che vivevano in un periodo compreso tra circa 320 milioni e 400 milioni di anni dopo il Big Bang, tra i più lontani mai osservati. La prima ipotesi, appunto, era che si trattasse di galassie contenenti milioni di stelle di popolazione III (le prime nate nel cosmo). L’altra, invece, è che si tratti di stelle oscure. Oscure per modo di dire, dato che emettono abbastanza luce da competere con un’intera galassia di stelle. Secondo la teoria, infatti, queste stelle fatte di materia oscura potrebbero raggiungere una massa pari a diversi milioni di volte quella del Sole, e una luminosità fino a dieci miliardi di volte superiore.
«Innanzitutto, non sono risolte e quindi possono essere interpretate come sorgenti puntiformi. E i loro colori sono coerenti con quelli che si teorizzano per le stelle oscure», spiega a Media Inaf Cosmin Ilie, ricercatore alla Colgate University, a Hamilton, nello stato di New York, e primo autore dello studio. «In termini di colori, infatti, sappiamo che le stelle oscure sono, in generale, degli ottimi camaleonti e possono camuffarsi da galassie primordiali. Lo avevamo previsto, sulla base di simulazioni, durante la stesura di un recente articolo e, senza sorpresa, abbiamo scoperto che questa previsione è confermata dai dati Jwst nell’articolo che abbiamo pubblicato su Pnas».
L’idea delle stelle oscure è comparsa, per la prima volta, in un articolo pubblicato nel 2008 su Physical Review Letters. Funzionano più o meno così: al centro delle prime protogalassie si troverebbero ammassi molto densi di materia oscura, insieme a nubi di idrogeno e gas di elio. Mentre il gas si raffreddava, collassava e trascinava con sé la materia oscura. Man mano che la densità aumentava, le particelle di materia oscura si annichilivano sempre più, aggiungendo sempre più calore, il che impediva al gas di collassare fino a un nucleo abbastanza denso da sostenere la fusione come in una stella ordinaria. Invece, continuerebbe a raccogliere altro gas e materia oscura, diventando grande, gonfia e molto più luminosa delle stelle ordinarie. A differenza delle stelle ordinarie, la fonte di energia sarebbe distribuita uniformemente, anziché concentrarsi nel nucleo. Con una quantità sufficiente di materia oscura, quindi, queste stelle riescono a raggiungere masse e luminosità come quelle che citavamo sopra.
Non ci sono comunque solo somiglianze, con le galassie primordiali, ma anche qualche caratteristica che potrebbe far pendere l’ago della bilancia, in maniera definitiva, in una direzione o nell’altra. «In termini di differenze, innanzitutto le stelle oscure sono sorgenti puntiformi, mentre le galassie sono oggetti estesi», continua Ilie. «Inoltre, in termini di spettro, le stelle oscure supermassicce presentano alcune differenze significative rispetto alle galassie primordiali. La più significativa è la presenza di una riga di assorbimento caratteristica dovuta all’elio, la cosiddetta riga HeII (1640 ångström). Le galassie primordiali non presentano questa caratteristica. Con un tempo di esposizione sufficiente, queste differenze possono essere utilizzate per confermare che qualunque candidato è una vera e propria stella oscura».
Infine, i ricercatori sottolineano che è altamente improbabile che le stelle oscure si formino o sopravvivano fino all’universo locale. Delle tre condizioni per la formazione di stelle oscure individuate nell’articolo del 2008 che citavamo sopra, solo una è soddisfatta nell’universo più maturo (vale a dire a redshift inferiore a circa 10): il fatto che i prodotti dell’annichilazione fra le particelle di materia oscura possano termalizzare in modo efficiente all’interno di una nube di gas protostellare. Le altre due condizioni – che la densità di materia oscura sia sufficientemente elevata, e che le nubi di gas coinvolte nella formazione di stelle abbiano una bassa metallicità – sono soddisfatte solo durante l’alba cosmica, quando si sono formate le prime stelle e galassie.
«Possiamo trovare altre candidate stelle oscure con Webb e il prossimo Roman Space Telescope, e possiamo confermarle spettroscopicamente con lo strumento NirSpec di Webb, sfruttando appunto la riga caratteristica di assorbimento dell’elio HeII 1640, e possibilmente anche con Alma, sfruttando altre caratteristiche specifiche degli spettri delle stelle oscure supermassicce a lunghezze d’onda superiori».
Per saperne di più:
- Leggi su Pnas l’articolo “Supermassive Dark Star candidates seen by JWST”, di Cosmin Ilie, Jillian Paulin, e Katherine Freese