Nella classifica 2023 delle donne di successo di Forbes c’è un po’ di tutto: dalle massime cariche manageriali e aziendali, alle politiche, alle attrici, registe, cantanti. Ci sono anche la presidente di Poste Italiane, Silvia Rovere, un’ingegnera nonché astronauta di riserva dell’Agenzia spaziale europea, Anthea Comellini, e due scienziate: una matematica dell’Università di Parma, Cristiana De Filippis, e un’astrofisica che lavora al Max Planck Institute for Extraterrestrial Physics (Mpe) di Garching, una cittadina nella periferia nord di Monaco di Baviera, Mara Salvato. Cinquantaseienne originaria di Bertipaglia, un piccolo paesino in provincia di Padova, dopo la laurea in astronomia Salvato è andata via dall’Italia per non tornare più. Diverse esperienze lavorative in Germania e negli Stati Uniti l’hanno portata, infine, a rientrare a Monaco nel 2009, dove oggi vive e lavora. Una scienziata che, forse, più delle galassie – soprattutto quelle con nuclei attivi – ama solo suo marito e i suoi gatti. Le piace fare il pane in casa (da ben prima del Covid, ci tiene a precisare), e per distrarsi dal lavoro si diletta con le perle per farne bigiotteria. Media Inaf l’ha raggiunta per un’intervista poco prima della sua partenza per New York, dove seguirà la conferenza annuale della Sloan Digital Sky Survey, una delle campagne osservative di riferimento per l’astronomia osservativa.
Mara Salvato, fra le pochissime ricercatrici nella lista di Forbes. Solo due su cento, una delle quali lavora all’estero. È un caso?
«Non saprei: la mia carriera, sebbene interamente costruita all’estero, dove spesso si sente dire che le possibilità sono diverse e migliori rispetto all’Italia, non è stata per nulla lineare. Pensa che ho un posto fisso qui al Max Planck solo dal 2018, e gli ultimi due contratti prima di questo sono stati di 6 e 3 mesi. Non è stato semplice».
Come mai lei pensa di essere stata scelta da Forbes?
«Non ho idea di come sono finita in quella lista, né di come mi abbiano trovata e selezionata. Ho persino scritto loro per chiedere informazioni a riguardo, perché volevo capire la motivazione. Onestamente conosco moltissime donne, astronome, che lavorano in Italia o all’estero, e che meriterebbero di essere in quella lista: non vedo alcuna differenza fra me e loro. Non so come mai sia toccato a me. Tornando alla domanda di prima, se fossi rimasta in Italia non so se sarei stata nella lista. È vero, faccio un lavoro che serve a tantissimi, per cui vengo citata e sarebbe stato lo stesso anche in Italia. Ma, assumendo di essere stata scelta perché sono tra gli astrofisici più citati al mondo – dal 2017 al 2020 sono stata nella classifica ufficiale della Reuters e sono tra i 100 anche nella lista AD – allora la risposta è no. Questi risultati derivano soprattutto dal fatto che lavoro con collaborazioni molto grandi e il mio istituto ha pagato per esserne membro, quindi dall’Italia non avrei potuto contribuire».
Come ha scoperto di Forbes, quindi?
«È una storia buffa: lo scorso sabato la maestra in pensione di mio nipote ha mandato una foto a mia cognata con un ritaglio della rivista, chiedendo se potesse divulgare la notizia perché si sentiva orgogliosa che una compaesana avesse ottenuto un simile riconoscimento. Mia cognata mi ha chiesto il permesso, ma io non capivo di cosa parlasse. Ho cercato su Google e mi sono trovata. Ho detto subito di sì: per me era importante che lo sapessero in paese, che lo sapessero soprattutto le bambine del paese, e la mia scuola».
Come mai?
«Ho fatto l’istituto d’arte e dovevo diventare falegname per seguire il lavoro di mio padre. Poi all’inizio del quarto anno, quando ero già maestra d’arte, abbiamo fatto qualche lezione di geografia astronomica, e ho scoperto che la Luna si può vedere anche di giorno. Lì ho deciso che avrei fatto astronomia. Il riconoscimento che mi ha dato Forbes dimostra che non è vero che quando si comincia un percorso bisogna necessariamente continuarlo: si può cambiare e lo si può far bene».
C’è stato un momento nella sua carriera che ha segnato la svolta, o un articolo in particolare per cui è nota?
«C’è un lavoro sul quale ho costruito la mia carriera, sì. Quando ho finito il dottorato avevo preso una posizione per lavorare per una missione tedesca che doveva fare da precursore a Gaia. All’ultimo questa è stata soppressa per mancanza di fondi e io mi sono trovata senza lavoro. Grazie ad alcune conoscenze ho scoperto che qui al Max Planck uno dei direttori aveva aperto una posizione. Sono stata presa per lavorare su evoluzione di galassie, e con l’accordo che non avrei più lavorato sugli Agn, i nuclei galattici attivi, argomento sul quale mi ero specializzata durante il dottorato. Nel tempo però mi ero resa che nessuno, nel nostro campo, calcolava bene i redshift fotometrici degli Agn. E così nel mio tempo libero ho cominciato a trasferire le conoscenze che stavo acquisendo sulle galassie agli Agn, e questo mi ha permesso di acquisire una competenza che al tempo nessuno aveva, e di entrare in diverse collaborazioni internazionali con questa nuova expertise. Nel mio lavoro, quindi, sono conosciuta per questo: aver messo in piedi un metodo per calcolare le distanze degli Agn senza avere a disposizione lo spettro, usando appunto la tecnica del redshift fotometrico. Sono stata una pioniera in questo ambito, ho collaborato a un articolo di review su Nature Astronomy che spiega questa tecnica e questo mi ha dato visibilità. Penso anche di essermi guadagnata il posto fisso qui, dopo anni di precariato, proprio grazie a questo. È un lavoro che mi gratifica e mi appaga molto, anche se ho meno tempo per lavorare a progetti miei perché sono sempre impegnata a preparare il lavoro per altri».
Se dovesse spiegarmi in parole semplici qual è il suo lavoro, quindi?
«La domanda scientifica alla quale ho sempre cercato di rispondere è la relazione fra l’attività del buco nero supermassiccio al centro delle galassie – specialmente quelle in cui questo è attivo, gli Agn appunto – e l’evoluzione della galassia stessa. Cerco di capire come queste due componenti si influenzano a vicenda. Per poterci arrivare, c’è bisogno di un gran lavoro di preparazione. Negli ultimi anni, oltre al calcolo delle distanze di cui parlavamo prima, ho cercato un modo per capire come identificare in modo sicuro la galassia responsabile dell’emissione X. A questa frequenza è facile identificare un buco nero attivo, ma le surveys non riescono a raggiungere un’elevata precisione. Lavoro soprattutto per eRosita (l’Extended Roentgen Survey with an Imaging Telescope Array), il telescopio spaziale costruito qui nel nostro istituto e del quale sono portavoce, che sta mappando tutto il cielo ai raggi X, e che appunto non ha una risoluzione sufficiente da riuscire accoppiare l’emissione X rilevata alla sorgente ottica che l’ha emessa. Per dirla in parole semplici, eRosita vede un’emissione a raggi X in una determinata direzione, ma nella maggior parte dei casi non è in grado di dire quale delle centinaia di galassie o stelle che si trovano in quella regione l’abbia prodotta. Mischiando statistica bayesiana e machine learning, con i miei colleghi ho messo a punto un nuovo metodo per identificare la controparte ottica più probabile, per poi calcolarne la distanza. Grazie a questo, preparo e distribuisco i cataloghi ai miei collaboratori che li usano per fare scienza».
Se non erro lavora anche alla missione Euclid: sono appena state pubblicate le prime immagini. Che ne pensa, sarà un successo?
«Penso che avrà un sacco di successo, anche se non so se sarà il successo che ci si aspetta. La missione ha due classi di obiettivi: quelli primari, ovvero lo scopo scientifico per cui è stata costruita – derivare i parametri cosmologici sfruttando l’effetto di weak lensing e il clustering – e poi gli obiettivi della cosiddetta scienza di legacy, che riguardano tutte le altre informazioni scientifiche che si possono derivare dai dati raccolti. Per raggiungere i primi c’è bisogno non solo di una grande area di campionamento, ma anche di una precisione al limite del possibile e secondo me ci vorrà moltissimo tempo per ottimizzare strumenti e tecniche in modo da essere nelle condizioni migliori per provarci. Invece, come già accaduto per eRosita, la legacy fornirà da subito una miniera d’oro a cui attingere. Per la prima volta, avremo immagini profonde nel vicino infrarosso per 15mila gradi quadrati di cielo: un’enormità. Ci saranno immagini, spettri, e si vedranno cose mai viste prima. Non so dirti se e quando arriveranno i successi per la scienza primaria, perché i requisiti sulla precisione sono tanti e ambiziosi. Sulla carta ce la si dovrebbe fare, ma ci vorrà molto tempo».
Lei è anche una sostenitrice della causa femminile, specialmente nel mondo della scienza. Vuole dirci qualcosa a riguardo, anche alla luce della lista pubblicata da Forbes?
«Sono ufficiale delle pari opportunità da circa otto o nove anni qui a Mpe: è un argomento che mi sta molto a cuore. Abbiamo iniziato molte attività per far sì che le nuove generazioni capiscano che anche le donne possono fare questo lavoro. Qui in Baviera la frazione di donne nelle discipline Stem (science, technology, engineering, and mathematics) è ancora bassa, e per questo ci tengo a dedicare del tempo a presentare dei modelli di donne che ce l’hanno fatta. Da circa cinque anni qui in istituto abbiamo un evento che si chiama Women in astronomy, in cui invitiamo donne astrofisiche tedesche di alto profilo che lavorano in Germania sia per dare un talk scientifico al personale di ricerca, sia per tenere un incontro con le nuove generazioni e con il pubblico su temi di family-work balance, gestione familiare e lavorativa. L’obiettivo è normalizzare il nostro lavoro e invogliare le bambine a intraprendere discipline Stem».
La chiave sono le nuove generazioni secondo lei, quindi.
«Assolutamente. Credo nel potenziale che abbiamo di agire sui più piccoli, e penso anche che lentamente le cose stiano cambiando. Non siamo più mosche bianche, anche se la transizione non è così veloce come vorremmo. Un’altra cosa su cui lavoriamo è assicurarci che nelle interviste lavorative le donne vengano trattate allo stesso modo degli uomini. Abbiamo ancora tanti preconcetti che influenzano inevitabilmente l’esito finale. C’è anche un video che viene fatto vedere in alcuni istituti ai membri delle commissioni per ricordare loro i propri bias quando fanno interviste per posizioni lavorative».
Può fare qualche esempio?
«Me ne vengono in mente un paio. Parlo, nel caso di un’intervista per una posizione lavorativa, del fatto che di fronte alla stessa situazione la credibilità e professionalità di un ricercatore maschio non vengano messi in discussione, mentre se si tratta di una donna sì. È una modalità che si ripete in diverse forme. È capitato, ad esempio, anche se non saprei riferire né dove né quando sia successo, che a un ricercatore maschio dicessero “ho visto il tuo ultimo articolo come primo autore, complimenti”, mentre a una ricercatrice donna lo stesso riferimento diventasse “ho visto il tuo ultimo articolo come primo autore, quale parte del lavoro hai fatto tu?”. Oppure, circa una decina di anni fa ha fatto notizia il caso di un referee che ha chiesto esplicitamente alla donna prima autrice di un articolo in revisione di far controllare i risultati a un collega maschio. Queste cose, anche se in misura minore di un tempo, continuano a succedere. Per questo è importante è che noi donne continuiamo a dimostrare che la matematica, la fisica e la scienza fanno anche per noi. Penso che questo debba riguardare innanzitutto i più piccoli, perché ancora oggi maschi e femmine vengono trattati in modo diverso e vengono proposti loro giochi diversi che fanno loro sviluppare capacità distinte. Infine, faccio uno statement politico che probabilmente solleverà polemiche: il fatto di insistere che tutte le professioni vengano declinate anche al femminile non è solo una questione di forma, ma di concetto e di cultura sociale».
In che senso?
«Se si chiede a un bambino di disegnare un dottore, disegnerà un maschio. La stessa cosa per un avvocato, un calciatore, e per tutte le altre professioni – che solitamente sono le più prestigiose – attualmente declinate solo al maschile. Per altre, come la maestra, l’infermiera, la cameriera, è diverso. La componente femminile è contemplata. Cominciare a chiamare diversamente anche le professioni storicamente ricoperte da uomini e riconoscere il genere aiuterà le nuove generazioni a capire che qualunque posto lavorativo è per tutti. Il genere deve essere usato per abbattere la segregazione dei ruoli e far sapere ai bambini che si può essere pompiera, dottoressa, avvocatessa, tanto quanto operaia e professoressa. Per questo mi interessa di più parlare alle scuole piuttosto che a una conferenza per adulti, perché è la nuova generazione che deve abituarsi alla parità. È una cosa che mi sta davvero a cuore».