Le meraviglie del James Webb Space Telescope ce le hanno raccontate in tanti. Il leitmotiv della narrazione dell’anno e mezzo trascorso dal lancio, e a poche settimane dall’anniversario delle prime immagini pubblicate, è sempre lo stesso: mostrare e dimostrare quanto il nuovo telescopio spaziale dorato, il più grande mai messo in orbita, possa rivoluzionare le nostre conoscenze sul cosmo. Ma la complessità viaggia sempre a braccetto con il rischio, e ha un’ombra a forma di insuccesso. Per questo, più che mai nel caso di Webb, “failure is an option”. Lo dicono proprio gli scienziati, gli ingegneri e i progettisti che hanno lavorato al James Webb Space Telescope, la missione spaziale con più punti di vulnerabilità della storia. Punti che troverete diverse volte enumerati nel documentario Unknown: cosmic time machine (in italiano, Unknown: la macchina del tempo cosmica), da poco disponibile su Netflix. I protagonisti della storia messa in scena dal regista Shai Gal sono loro, gli ideatori e i progettisti di Webb, che a turno ripercorrono, in 64 minuti, le tappe fondamentali che hanno visto nascere il telescopio spaziale: dall’idea alla realizzazione, sviscerando e spuntando, un po’ alla volta, i 344 singoli punti di vulnerabilità che lo caratterizzano. E che, se qualcosa dovesse andare storto, ne decreterebbero in maniera irreversibile la fine.
L’Apollo della scienza: così viene apostrofato Webb da Thomas Hansueli Zurbuchen, astrofisico svizzero-americano da cinque anni responsabile scientifico della Nasa. Una missione che poteva essere un successo così come un completo disastro: “chi pensa che la fortuna non conti, o è un folle o mente”, dice un ingegnere di missione, mentre Zurbuchen per tenere a bada l’ansia che qualcosa vada storto corre: minimo 1600 chilometri all’anno il suo obiettivo, ampiamente superato grazie al James Webb.
La storia raccontata in Unknown: Cosmic Time Machine passa in rassegna tutti i test eseguiti sul telescopio, analizzando le sfide tecnologiche e riportando gli obiettivi scientifici. Senza tralasciare le battute d’arresto. Nel 1998 si diceva che Webb sarebbe stato lanciato nel 2007, e che sarebbe costato 500 milioni di dollari. Nel 2011 non solo il progetto non era finito, ma il costo era già lievitato a 6 miliardi di dollari, e sarebbe aumentato ancora. Tanto che venne fatta un’indagine dal Congresso e il rischio di interruzione della missione era altissimo. Per non parlare dell’infangata mediatica scatenata in seguito al fallimento dei test di vibrazione. La ragione fa sorridere: alcune viti non erano bloccate. Le conseguenze un po’ meno: “ci sono diecimila viti su quell’affare”, ricorda Zurbuchen nel documentario, “per risolvere il problema ci sono voluti sei mesi e 150 milioni di dollari”.
Il documentario procede via via spuntando la lista dei punti di vulnerabilità: l’installazione dello scudo termico, l’apertura dello specchio, l’allineamento delle ottiche – con lo spettro dello specchio fuori fuoco del telescopio spaziale Hubble. Con la differenza, però, che Webb non può essere raggiunto fisicamente, dato che si trova a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra. Ne rimangono, infine, 49: sono i punti di vulnerabilità permanenti, quelli con i quali si deve imparare a convivere.
E finalmente arriviamo alle prime immagini. Le abbiamo viste tutti, sei mesi dopo il lancio. Ma in Unknown: Cosmic Time Machine possiamo vederle da dietro le quinte: l’elaborazione dei dati del telescopio, la scelta dei soggetti, l’aggiunta dei colori, e persino la preparazione del discorso del presidente Biden – che ha presentato la primissima immagine di un ammasso di galassie di Webb. Almeno settemila galassie, stelle, ammassi e lenti gravitazionali in un angolo di cielo grande quanto un granello di sabbia. Un’immagine che, come dice l’amministratore della Nasa Bill Nelson, “fa pensare che qualunque cosa sia là fuori, noi la vedremo”.
Un documentario che cambia spesso prospettiva, persone, che racconta il bello e il brutto, che mostra animazioni inedite, e lo fa con tutto il pathos e il sensazionalismo di cui è capace lo stile americano. Ma che con Webb c’entra abbastanza, considerando la quantità di sfide e difficoltà tecniche che lo caratterizzano. Con una riflessione finale sulla forza della collaborazione e dell’intelligenza umana, quando ben indirizzata. Piacevole e per nulla noioso. Adatto a tutti. Insomma, noi l’abbiamo visto per voi, ma un’oretta per guardarlo la potete trovare.