In attesa che la prima donna cammini sulla Luna, è interessante riflettere su come il problema del genere abbia influenzato l’esplorazione umana dello spazio. In effetti, nell’arco di tempo relativamente breve trascorso dall’inizio dell’era spaziale, la percezione pubblica delle donne astronaute si è evoluta notevolmente. Se in un primo momento il desiderio di diventare astronauta era considerato semplicemente stravagante per una ragazza, ora le agenzie spaziali incoraggiano le candidature femminili.
Si tratta di un importante cambiamento di atteggiamento che, tuttavia, ci ricorda che diventare astronauta non è mai stato un compito facile. Questo vale sia per gli uomini che per le donne, con una differenza significativa: per molto tempo, almeno in occidente, questa carriera è stata semplicemente preclusa alle donne.
Il rapporto tra le donne e lo spazio è iniziato nel 1963 in Unione Sovietica con il volo di Valentina Tereskowa, un’operaia di salda fede politica con la passione per il paracadutismo, ma senza nessuna preparazione specifica. Il messaggio della propaganda sovietica era chiaro: nella patria del socialismo, tutti potevano sognare di andare nello spazio. La decisione di fare volare una donna era stata tenuta segretissima, tanto che all’aspirante cosmonauta era stato proibito di dare la notizia persino alla mamma, che lo scoprì a cose fatte. A bordo della Vostok 6, Valentina descrisse 69 orbite durante le quali soffrì terribilmente di mal di spazio, stette così male che non riuscì a portare a termine i compiti che le erano stati affidati. Ritornò a terra in condizioni pietose. La foto ricordo venne fatta dopo un passaggio in ospedale e una pulizia generale. Ovviamente, questi problemi, che avrebbero offuscato l’immagine della scienza sovietica, vennero taciuti al pubblico, ma il nume tutelare della cosmonautica russa, Sergei Korelev, disse che con le donne aveva chiuso. Una preclusione che pesa ancora e si riflette nel bassissimo numero delle cosmonaute.
Non che alla Nasa le cose andassero meglio, diciamo che non si ponevano nemmeno il problema: negli anni ‘60 l’idea di scegliere gli astronauti tra i piloti collaudatori delle varie armi dell’esercito americano era un modo semplice ed efficace per eliminare le candidature femminili. La situazione cambiò nel 1976 con il bando per selezionare l’ottavo gruppo di astronauti, che introdusse la possibilità di candidarsi per le posizioni di mission specialist. In questo modo, per la prima volta, la Nasa aprì il corpo degli astronauti alle donne e alle minoranze. Infatti, a differenza di tutti i bandi precedenti, in cui era obbligatoria un’esperienza da pilota collaudatore, uno specialista di missione doveva avere una formazione scientifica, un requisito che anche le donne potevano soddisfare. Finalmente anche loro potevano avere un’opportunità. Tra gli 8370 candidati al bando del 1976, 1000 erano donne, e Sally Ride era una di loro.
È stata la seconda delle 75 viaggiatrici spaziali le cui storie, spesso sorprendenti, a volte divertenti, sono raccontate da Umberto Cavallaro nel libro To the Stars. Scorrendo le loro biografie, è possibile apprezzare sia le loro diversità, sia i loro punti di contatto. Le donne astronaute si possono dividere in due gruppi: quelle che hanno sempre sognato di andare nello spazio e quelle che hanno scoperto questa possibilità per caso, leggendo un annuncio su un giornale o ascoltando la radio.
Sally Ride era una dottoranda a Stanford quando ha letto sullo Stanford Daily che la Nasa stava selezionando scienziati come specialisti di missione. Ascoltando la radio, Helen Sharman apprese che un consorzio privato di industrie inglesi stava cercando un volontario per volare verso la stazione Mir, dove lei fu il primo ospite inglese, anzi il primo astronauta inglese, anche se “privato”. Peccato che la sua storia sia stata dimenticata. Dopo tutto è stata la prima donna europea in orbita e ci si chiede come mai non le sia stato riservato un posticino nella storia “ufficiale”. La prima donna giapponese nello spazio è stata Chiaki Mukai, chirurga cardiovascolare, che, rilassandosi dopo una notte di lavoro in terapia intensiva, vide un annuncio che le cambiò la vita. Qualcosa di simile è accaduto nel 2021 quando, durante il SuperBown, uno spot pubblicitario ha annunciato che Jared Isaacman accettava candidature per l’equipaggio che avrebbe volato con lui nella prima missione spaziale interamente privata. Sian Proctor non aveva visto l’annuncio, ma si è incuriosita leggendo i commenti su Twitter e ha deciso di inviare la sua proposta per sviluppare un’attività legata allo spazio. Dopo essersi candidata due volte, senza successo, per diventare astronauta della Nasa, ha avuto il privilegio (vogliamo dire la soddisfazione?) di volare prima di chi aveva superato la selezione. Insieme a Sian, ha volato nello spazio anche Hayley Arceneaux, una sopravvissuta al cancro con un arto prostatico. Hayley ha stabilito due record: oltre a essere la più giovane astronauta americana, è stata anche la prima persona disabile a volare, dimostrando che lo spazio è alla portata di tutti. Nello stesso anno abbiamo assistito alla realizzazione del sogno di Wally Funk. Sessant’anni dopo il suo tentativo fallito di essere presa in considerazione dalla Nasa, finalmente ha potuto fluttuare nello spazio per pochi preziosi minuti offerti da Jeff Bezos per inaugurare i voli suborbitali della sua compagnia Blue Origin. Nell’ottobre 2021 abbiamo anche visto la Iss trasformarsi in un set cinematografico con l’attrice russa Yulia Peresild che ha impersonato una chirurga mandata nello spazio per salvare un cosmonauta. Sebbene Yulia abbia battuto Tom Cruise, che aveva già annunciato l’intenzione di girare scene di un suo film d’azione sulla Iss, la parità nello spazio è ancora lontana. Tuttavia, siamo testimoni di importanti miglioramenti: il 25 per cento dei candidati che hanno risposto al recente bando per diventare astronauti dell’Agenzia spaziale europea sono donne.