Su come si siano formate la Terra, la Luna e gli altri pianeti rocciosi del Sistema solare abbiamo le idee abbastanza chiare. Nel disco protoplanetario che circondava il Sole, pieno di polvere e planetesimi, frequenti e più o meno disastrose collisioni hanno permesso l’agglomerarsi di corpi rocciosi che sarebbero diventati poi i pianeti interni. Fra questi, c’è anche la Terra. Sulla quale, in seguito, altri impatti hanno contribuito ad arricchirla chimicamente, portando elementi che si sarebbero rivelati fondamentali alla vita, e che hanno creato le condizioni geofisiche giuste affinché questa si sviluppasse. Anche gli elementi pesanti, i metalli preziosi che troviamo nel mantello terrestre, sarebbero arrivati a bordo di corpi impattanti. Quale sia stata esattamente la modalità, però, è ancora incerto. Ci si aspetterebbe, infatti, che metalli pesanti simili al ferro – come l’oro, il renio e gli elementi del gruppo del platino – migrino tutti verso il nucleo, mentre invece ne troviamo in abbondanza nel mantello e nella crosta terrestre. Una possibile soluzione l’hanno descritta due ricercatori in un articolo pubblicato su Pnas.
«Questi elementi, che in inglese divulgativo di chiamano iron loving, e forse in italiano potremmo dire affini al ferro o siderofili, sono importati proprio per studiare l’evoluzione della Terra dopo la formazione della Luna», dice a Media Inaf Simone Marchi, ricercatore al Southwest research institute a Boulder, in Colorado, e autore dello studio assieme a Jun Korenaga. «L’abbondanza di questi elementi nel mantello e nella crosta terrestre indica che la Terra fu bombardata per un lungo periodo dopo la formazione del suo satellite. Tuttavia, il processo per cui questi elementi vengono trattenuti nel mantello e nella crosta terrestre rimane incerto».
Simulazioni di impatti che penetrano nel mantello terrestre hanno sempre mostrato che solo una piccola frazione del nucleo metallico di un planetesimo riesce a essere assimilata dal mantello terrestre, mentre la maggior parte dei metalli siderofili defluisce rapidamente verso il nucleo terrestre. L’idea degli autori, quindi, è che questi siano stati trasportati da un impatto successivo alla formazione del nucleo terrestre, e che abbiano incontrato, sotto l’oceano magmatico generato dall’impatto stesso, una zona parzialmente fusa in grado di bloccare la discesa dei metalli nel nucleo della Terra.
«Il problema è il seguente», spiega infatti Marchi: «il mantello terrestre non riesce a trattenere facilmente la particelle o i grumi metallici che arrivano con gli impatti. Il metallo tende a precipitare alla base del mantello velocemente. È un po’ come tirare dei sassi in uno stagno, e tentare di trattenerli sospesi senza farli precipitare. Il nuovo processo che abbiamo identificato richiede la distribuzione e assimilazione dei grumi metallici in una regione parzialmente fusa del mantello, cosicché la densità di questa regione sia solo minimamente più alta del resto. In sostanza, il metallo viene diluito e questo processo è più rapido della precipitazione. Infine, questa ampia zona precipita alla base del mantello, ma il metallo è cosi diluito da rimanere intrappolato, e viene poi trasportato verso l’alto in tutto il mantello e nella crosta grazie alla convezione».
Per capire in quali condizioni il mantello riesce a trattenere elementi pesanti come i metalli, gli autori hanno modellato il mescolamento di un planetesimo impattante con i materiali del mantello in tre fasi fluide: minerali silicati solidi, magma di silicati fuso e metalli liquidi. L’intero processo – riassunto anche dalle parole del ricercatore qui sopra – lo vedete riassunto nell’infografica a fianco. In pratica, quando un planetesimo si schianta sulla Terra crea un oceano di magma liquido localizzato in cui i metalli pesanti affondano sul fondo. Raggiungono quindi una regione parzialmente fusa sottostante attraverso cui il metallo riesce a percolare affondando lentamente verso il fondo del mantello. Durante questo processo il mantello fuso si solidifica, intrappolando il metallo. Infine, subentra la convezione: il calore proveniente dal nucleo terrestre provoca un lentissimo movimento di scorrimento dei materiali nel mantello solido e le correnti che ne derivano trasportano il materiale caldo dall’interno alla superficie del pianeta. Il mantello è quasi interamente solido anche se, in tempi geologici, si comporta come un fluido duttile e altamente viscoso, che mescola e ridistribuisce i materiali, compresi gli elementi altamente siderofili accumulati da grandi collisioni avvenute miliardi di anni fa.
«Per adesso ci siamo focalizzati sulla Terra», conclude Marchi, «ma il nostro lavoro dimostra come le simulazioni di impatti (come quelle che abbiamo fatto) e la geofisica vadano di pari passo per capire la formazione della Terra, e sicuramente lo stesso vale anche per gli altri pianeti».
Per saperne di più:
- Leggi su Proceedings of the National Academy of Sciences l’articolo “Vestiges of impact-driven three-phase mixing in the chemistry and structure of Earth’s mantle“, di Jun Korenaga e Simone Marchi