Queste due immagini, che a una prima occhiata potrebbero sembrare la stessa, se osservate attentamente presentano sottili differenze. Sono state infatti scattate spostando leggermente l’obiettivo in modo da creare quella che viene definita visione stereoscopica. In pratica, la possibilità di usare due immagini bidimensionali per crearne una terza, tridimensionale, che simuli la visione reale, emulando ciò che i nostri occhi fanno in maniera automatica sin dalla nascita. Ne ha parlato, in un blog pubblicato dalla Nasa, il celebre Brian May, coinvolto nel team scientifico di Osiris-Rex in quanto esperto di stereoscopia dal principal investigator della missione, Dante Lauretta, per “trovare opportunità di stereoscopia nella ricchezza di dati visivi acquisiti dalle telecamere della sonda su Bennu”.
Se non avete mai fatto questo giochino, basta che alziate lo sguardo e guardiate qualunque cosa abbiate davanti a voi alternando occhio destro e sinistro. Vi accorgerete che il punto di vista si sposta un po’, per effetto della distanza che separa i vostri occhi. Il cervello riceve le due immagini distinte e le elabora insieme in una visione unica, in cui aggiunge – proprio grazie alla sottile differenza, o parallasse – una componente importante: la profondità.
Questo, dunque, è il principio dietro la creazione delle immagini stereoscopiche. Per elaborarle in un’unica immagine è possibile usare uno stereoscopio, ovvero uno strumento che opera combinando le due immagini un po’ come fa il nostro cervello, oppure praticare la cosiddetta visione stereoscopica, ponendosi abbastanza vicino alle due immagini, rilassando la vista e incrociando o divergendo gli occhi a seconda della tecnica che si decide di provare. Fingendo, questo almeno dice la teoria, di guardare all’infinito oltre l’immagine. La visione stereoscopica richiede infatti che le immagini di destra e di sinistra vengano trasmesse separatamente agli occhi di destra e di sinistra, come avviene nella vita reale. In questo modo, le piccole differenze tra i componenti della coppia stereoscopica – note come differenze di parallasse – danno al nostro cervello la possibilità di percepire istantaneamente la profondità e la solidità dell’immagine. Si tratta però di una pratica un po’ faticosa per la vista e, anche se ci sono varie tecniche per tentare di praticarla, riuscirci è probabilmente una facoltà innata.
Ma torniamo a Bennu, o meglio ai suoi grani raccolti dal Tagsam e riportati qui sulla Terra. La loro visione stereoscopica, riprodotta mediante questi due scatti, permette di riprodurne la visione dal vivo. Le immagini stereoscopiche sono risultate fondamentali, nel caso di Bennu, per definire il luogo giusto in cui effettuare il campionamento. In questo caso, invece, le immagini non sono state scattate di proposito, ma sono state trovate fra le tante immagini scattate da varie angolazioni quando il Tagsam è giunto nei laboratori della Nasa.
«Le immagini stereoscopiche sono molto utili perché, se guardate con gli occhiali appositi, diventano una cosa sola e riescono a mostrare proprio la profondità», dice a Media Inaf Maurizio Pajola, ricercatore all’Inaf di Padova e membro del team scientifico di Osiris-Rex. «Nel caso della missione su Bennu, è stato pazzesco usarle per guardare il sito di atterraggio perché rivelano una serie di dettagli in più che guardando la sola immagine bidimensionale non si apprezzerebbero. Nel caso dei campioni arrivati sulla Terra, avere delle immagini tridimensionali consente, a distanza, a chi non si trova direttamente dove sono custoditi i campioni, di capire esattamente come sono distribuiti, qual è la loro forma quali le loro dimensioni. Sono informazioni utili a scegliere quali analizzare per primi».