Haze. Un termine inglese che viene spesso reso con foschia, o nebbia. Ma sarebbe più appropriato tradurlo come caligine: “uno stato particolare dell’atmosfera – si legge sulla Treccani – la cui trasparenza è fortemente ridotta dalla presenza di finissimo pulviscolo (polvere desertica, ceneri vulcaniche, eccetera)”. Foschia prodotta da particelle solide in sospensione in atmosfera, dunque.
Una foschia che si ritrova non solo nell’atmosfera terrestre ma anche attorno a mondi lontani, a pianeti al di fuori del Sistema solare. Una foschia che ne altera proprietà ottiche. E in particolare gli spettri: vale a dire, i “codici a barre” fatti di righe d’assorbimento ed emissione usati dagli astronomi per ricostruire a distanza – anche a migliaia di anni luce – la composizione chimica delle atmosfere planetarie.
Ecco dunque che la presenza di haze rischia di falsare i dati, facendoci magari credere che una certa molecola non sia presente quando invece c’è – o viceversa. Un bel problema, anche per un gioiello della tecnologia qual è il telescopio spaziale James Webb: alcuni dei primi esopianeti che ha osservato hanno temperature di equilibrio inferiori a mille gradi kelvin, un regime in cui si prevede la formazione – appunto – di foschie fotochimiche.
Un problema soprattutto per la ricerca di mondi potenzialmente abitabili. Ed è proprio per chiarire e quantificare l’impatto della caligine nelle misure degli spettri di pianeti nei quali l’acqua è abbondante che un team guidato da Chao He della Johns Hopkins University ha deciso di ricreare le loro fosche atmosfere in laboratorio.
«L’acqua è la prima cosa che cerchiamo, quando vogliamo capire se un pianeta è abitabile, e già abbiamo raccolto osservazioni interessanti che testimoniano la presenza di acqua nelle atmosfere degli esopianeti», ricorda He. «Ma i nostri esperimenti e i nostri modelli suggeriscono che, molto probabilmente, questi pianeti contengono anche foschia. E questa foschia complica le nostre osservazioni, poiché confonde la nostra visione della chimica atmosferica e delle caratteristiche molecolari degli esopianeti».
I ricercatori hanno dunque progettato una camera ad hoc all’interno del laboratorio di scienze planetarie di Sarah Hörst, coautrice dello studio, sempre alla Johns Hopkins, nella quale hanno miscelato gas contenenti vapore acqueo e altri composti che si ipotizza siano comuni negli esopianeti. Hanno poi irradiato queste miscele con luce ultravioletta, per simulare il modo in cui la luce di una stella avvierebbe le reazioni chimiche che producono le particelle di caligine. Infine hanno misurato la quantità di luce assorbita e riflessa dalle particelle, per capire come interagirebbero con la luce nell’atmosfera.
I risultati ottenuti, pubblicati ieri su Nature Astronomy, sono i primi – dice Hörst – a consentire di quantificare la quantità di caligine che può formarsi nei pianeti d’acqua al di là del Sistema solare. Un po’ come i simulanti di terriccio marziano, che consentono di condurre in laboratorio esperimenti altrimenti impossibili. In questo caso, però, a essere simulate sono le esoatmosfere. Quella descritta nello studio, in particolare, è molto simile all’atmosfera che si suppone avvolga Gj 1214 b, un sub-nettuniano acquatico – avvolto da una foschia insolitamente brillante – osservato anche di recente da Webb. E le firme spettrali ottenute in laboratorio corrispondono a quelle di Gj 1214 b in modo molto più accurato rispetto a precedenti ricerche, dimostrando così che foschie con proprietà ottiche diverse possono portare a interpretazioni errate dell’atmosfera di un pianeta.
Il team sta ora lavorando per creare in laboratorio analoghi di altre foschie, con miscele di gas che rappresentino più accuratamente ciò che si vede con i telescopi. «Si potranno così usare questi dati, quando si modelleranno le atmosfere di esopianeti, per cercare di ricostruire, per esempio, quale sia la loro temperatura in atmosfera e al suolo, se ci sono nuvole, quanto sono alte e di cosa sono fatte, o la velocità dei venti», spiega Hörst. «Tutte informazioni che possono aiutarci a concentrare la nostra attenzione su pianeti specifici e ad approntare esperimenti ad hoc, invece di limitarci a test generalizzati, quando cerchiamo di ricostruire il quadro generale».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Optical properties of organic haze analogues in water-rich exoplanet atmospheres observable with JWST”, di Chao He, Michael Radke, Sarah E. Moran, Sarah M. Hörst, Nikole K. Lewis, Julianne I. Moses, Mark S. Marley, Natasha E. Batalha, Eliza M.-R. Kempton, Caroline V. Morley, Jeff A. Valenti e Véronique Vuitton