NEL CUORE DELLA GALASSIA GN-Z11, AD APPENA 400 MILIONI DI ANNI DAL BIG BANG

Mai s’era visto un buco nero così antico e lontano

Osservato dal James Webb Space Telescope, il telescopio dei record lanciato due anni fa nello spazio, è un buco nero supermassiccio di massa pari a centinaia di milioni di volte quella del Sole già nell’universo primordiale. La scoperta, pubblicata su Nature da un team guidato dall’italiano Roberto Maiolino, oggi nel Regno Unito, porta a riconsiderare i processi di formazione ed evoluzione di questi oggetti

     22/01/2024

Illustrazione artistica della regione attorno a un buco nero supermassiccio. Crediti: Nasa, Esa, N. Bartmann

Il buco nero più antico finora mai osservato è stato individuato grazie al telescopio spaziale James Webb (Jwst) nella galassia Gn-z11: risalirebbe ad appena 400 milioni di anni dopo il Big Bang, ovvero a oltre 13 miliardi di anni fa. Secondo uno studio pubblicato la settimana scorsa sulla rivista Nature e guidato dall’italiano Roberto Maiolino, oggi nel Regno Unito al Cavendish Laboratory e al Kavli Institute for Cosmology dell’Università di Cambridge, il fatto che questo buco nero attivo, di massa pari a qualche milione di volte quella del Sole, esista già così “presto” nell’universo mette in discussione le nostre ipotesi su come si formano e crescono i buchi neri.

Prima di oggi, gli astronomi ritenevano che i buchi neri supermassicci al centro di galassie come la Via Lattea impiegassero miliardi di anni per raggiungere le dimensioni attuali. Ma le caratteristiche di questo buco nero appena scoperto suggeriscono che potrebbero essersi formati in altri modi. Forse potrebbero essere nati già  “grandi”, o potrebbero essere più “voraci” e  mangiare la materia a una velocità cinque volte superiore a quella considerata possibile.

Questo buco nero, invece, già esisteva e aveva una massa considerevole in un’epoca in cui l’universo era agli albori, il che solleva interrogativi sulle teorie tradizionali sullo sviluppo di questi oggetti. Seguendo i modelli standard, infatti, i buchi neri supermassicci si formerebbero a partire dai resti di stelle morte che, collassando, possono dare origine a buchi neri di qualche centinaia di masse solari. Se si fosse sviluppato nel modo previsto, per arrivare alle dimensioni osservate – qualche milione di masse solari, appunto – il buco nero nel cuore di Gn-z11 avrebbe dovuto impiegare almeno un miliardo di anni. Eppure l’universo aveva meno di un miliardo di anni, all’epoca in cui Jwst lo ha visto: una scoperta che suggerisce la possibilità che questo antico buco nero possa aver seguito una via evolutiva unica nel suo genere. «È troppo presto nell’universo per vedere un buco nero così massiccio», dice Maiolino. «Dobbiamo considerare altri modi in cui questi oggetti possono formarsi. Le primissime galassie erano estremamente ricche di gas, dunque potrebbero aver rappresentato un ricco buffet per i buchi neri».

Questa immagine mostra un “primo piano” della galassia Gn-z11 che ospita il buco nero più antico osservato dagli autori della ricerca.. La galassia è stata fotografata dal telescopio spaziale Hubble e sovrapposta a un’altra immagine che segna la posizione della galassia nel cielo. Crediti: Nasa, Esa, and P. Oesch (Yale University)

Gn-z11, la giovane galassia ospite, è circa cento volte più piccola della Via Lattea e brilla grazie al buco nero così energetico al suo centro. I buchi neri, infatti, non possono essere osservati direttamente, ma vengono rilevati dal bagliore di un disco di accrescimento vorticoso, che si forma vicino al loro bordo. Il gas nel disco di accrescimento diventa estremamente caldo e inizia a brillare e a irradiare energia nell’ultravioletto. Questo forte bagliore è il segno con cui gli astronomi sono in grado di individuare i buchi neri.

Come tutti i suoi simili, il buco nero attivo di Gn-z11 sta divorando materiale dalla galassia che lo ospita per alimentare la sua crescita. Ma lo sta facendo con molta più voracità dei suoi fratelli formatisi in epoche successive. Forse troppa. Quando i buchi neri consumano troppo gas, infatti, lo spingono via sotto forma di “vento ultra veloce” capace di bloccare il processo di formazione delle stelle. In altre parole, attraverso il suo vigoroso consumo di materia il buco nero sta “uccidendo” lentamente la galassia che lo ospita, privandosi così della sua fonte di “cibo” e mettendo a rischio la sua stessa esistenza.

L’attuale susseguirsi di enormi passi avanti consentiti da Jwst rappresenta per Maiolino, che prima di arrivare nel Regno Unito ha lavorato per molti anni all’Inaf di Roma, il momento più emozionante della sua carriera. «È una nuova era. Il gigantesco salto di sensibilità compiuto con Jwst, soprattutto nell’infrarosso, è stato come passare dal telescopio di Galileo a un telescopio moderno in una notte», dice il ricercatore, secondo cui la sensibilità di Jwst potrebbe, nei prossimi mesi e anni, mostrarci buchi neri ancora più antichi.

Il telescopio spaziale Jwst della Nasa. Crediti: Nasa

L’intenzione del team di ricerca è, infatti, quella di continuare a sfruttare il telescopio spaziale per cercare “semi” più piccoli di buchi neri, che potrebbero aiutare a ricostruire i processi attraverso i quali si formano: sono già grandi dalla nascita o diventano rapidamente dei giganti?

«Prima che il telescopio James Webb entrasse in funzione e dopo aver già osservato con Hubble, pensavo che l’universo non fosse più così interessante da studiare», ricorda Maiolino. «Ma non è andata affatto così: l’universo si sta rivelando molto generoso nel mostrarci ciò che è accaduto. E questo è solo l’inizio».

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