Noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatte le stelle e la nostra piccola vita è cinta di stelle. Il ferro che scorre nelle nostre vene, il calcio che forma i nostri denti e il sodio che alimenta i nostri pensieri sono tutti nati nel cuore di una stella morta da molto tempo. La prima generazione di stelle ha cambiato l’universo; all’interno dei loro nuclei idrogeno ed elio si fondono per creare una vasta gamma di elementi. Quando queste stelle morirono, esplosero e sparsero questi nuovi elementi per tutto l’universo.
Nessuno è stato finora in grado di trovare una di queste stelle di prima generazione, ammesso che ne rimangano nell’universo, ma gli scienziati non demordono, e giusto mercoledì scorso hanno annunciato in un articolo su Nature Astronomy una scoperta unica: una stella di seconda generazione che originariamente si formò in una galassia diversa dalla nostra.
«Questa stella fornisce una finestra unica sul primissimo processo di formazione degli elementi in galassie diverse dalla nostra», spiega Anirudh Chiti, ricercatore post-dottorato alla University of Chicago e primo autore dell’articolo. «Ci siamo fatti un’idea di come queste stelle, che sono state chimicamente arricchite dalle prime stelle, appaiono nella nostra galassia, ma ancora non sappiamo se alcune delle caratteristiche che le contraddistinguono siano uniche, o se invece le cose siano andate più o meno allo stesso modo anche nelle altre galassie».
Chiti è specializzato in quella che viene chiamata archeologia stellare: ricostruire come le prime generazioni di stelle hanno cambiato l’universo. «Vogliamo capire quali fossero le proprietà di quelle prime stelle e quali furono gli elementi che produssero», dice Chiti.
Per rispondere a queste domande Chiti e i suoi colleghi cercano le stelle che si sono formate dai resti della prima generazione. Il problema della ricerca è che ormai anche la seconda generazione è incredibilmente antica e rara: la maggior parte delle stelle nell’universo — compresa la nostra — sono infatti il risultato di decine o migliaia di generazioni, che accumulano elementi sempre più pesanti dalle precedenti.
«Forse meno di 1 stella su 100mila nella Via Lattea è una di queste stelle di seconda generazione», dice Chiti. «È davvero come cercare un ago in un pagliaio». Ma è un’impresa che vale comunque la pena portare avanti, se si vuole comprendere la storia dell’universo. «Nei loro strati esterni, queste stelle preservano gli elementi vicini al luogo in cui si sono formate», spiega il ricercatore. «Se riesci a trovare una stella molto antica e a ricavarne la composizione chimica, puoi capire quale fosse la composizione chimica dell’universo nel luogo in cui si è formata quella stella, miliardi di anni fa». Le stelle, infatti, formandosi “raccolgono” gli elementi del mezzo interstellare in cui si trovano e li preservano pressoché inalterati negli strati esterni.
Per questo studio, Chiti e i suoi colleghi hanno puntato i loro telescopi verso un obiettivo insolito: le stelle che compongono la Grande Nube di Magellano, una luminosa fascia di stelle visibile a occhio nudo nell’emisfero australe.
Distante appena 160mila anni luce dalla Via Lattea, dunque nostra “vicina di casa”, gli astronomi ritengono che in origine fosse una galassia separata dalla nostra, e che sia stata catturata dalla gravità della Via Lattea solo pochi miliardi di anni fa. Ciò la rende particolarmente interessante, perché le sue stelle più antiche si sono formate al di fuori della Via Lattea, offrendo agli astronomi la possibilità di scoprire se le condizioni nell’universo primordiale erano tutte uguali o se erano diverse in altri luoghi.
Utilizzando prima il satellite Gaia dell’Agenzia spaziale europea e poi il Magellan Telescope, in Cile, gli scienziati sono riusciti a catalogare dieci stelle particolarmente antiche. Una di queste stelle, in particolare, è subito balzata all’occhio per una sua anomalia: la quantità di elementi pesanti in essa contenuti è enormemente inferiore a quella di qualsiasi altra stella mai vista nella Grande Nube di Magellano. Ciò significa che probabilmente si è formata sulla scia della prima generazione di stelle, senza dunque aver potuto ereditare gli elementi più pesanti, accumulati dalle stelle nel corso di ripetuti cicli vitali.
Mappando gli elementi di questa stella peculiare, gli scienziati sono rimasti sorpresi anche nel vedere che conteneva molto meno carbonio che ferro rispetto a quello che vediamo nelle stelle della Via Lattea. «È un fatto molto intrigante, e suggerisce che, forse, l’aumento del carbonio della prima generazione, osservato nella Via Lattea, non è un fenomeno universale», nota Chiti. «Dovremo fare ulteriori studi, ma ciò suggerisce che ci siano differenze da luogo a luogo».
«Penso che stiamo completando il quadro di come doveva apparire il processo di arricchimento degli elementi iniziali in diversi ambienti», dice il ricercatore.
I risultati ottenuti stanno anche corroborando altri studi che suggerivano che la Grande Nube di Magellano producesse molte meno stelle rispetto alla Via Lattea.
Chiti sta ora conducendo un programma di imaging per mappare un’ampia porzione del cielo meridionale, sempre in cecra delle prime stelle possibili. «La nostra scoperta suggerisce che, se guardiamo da vicino, dovrebbero esserci molte di queste stelle nella Grande Nube di Magellano», conclude l’astronomo. «È davvero emozionante scoprire l’archeologia stellare della Grande Nube di Magellano ed essere in grado di mappare in modo così dettagliato come le prime stelle abbiano arricchito chimicamente l’universo in diverse regioni».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Enrichment by extragalactic first stars in the Large Magellanic Cloud” di Anirudh Chiti, Mohammad Mardini, Guilherme Limberg, Anna Frebel, Alexander P. Ji, Henrique Reggiani, Peter Ferguson, Hillary Diane Andales, Kaley Brauer, Ting S. Li e Joshua D. Simon