Era mezzanotte al centro di controllo dell’Agenzia spaziale europea (Esa) di Darmstadt, in Germania, quando il team che coordina le operazioni della missione Euclid ha “sbrinato” i primi due specchi del telescopio, la cui vista sopraffina si era andata via via affievolendo negli ultimi mesi a causa di un sottile quanto infausto strato di ghiaccio. «Siamo stati molto attenti alle tempistiche, assicurandoci di avere un contatto costante tra la sonda spaziale e la nostra stazione di terra a Malargüe, in Argentina, in modo da poter essere pronti a reagire in tempo reale in caso di anomalie», racconta Micha Schmidt, responsabile Esa per le operazioni della missione. «Per fortuna, tutto è andato come previsto. Quando abbiamo visto la prima analisi fornita dagli esperti scientifici, abbiamo capito che sarebbero stati molto contenti: il risultato è stato decisamente migliore di quanto potessimo aspettarci».
Euclid è l’ultima in ordine di lancio delle missioni scientifiche dell’Esa. Il suo obiettivo ambizioso – comprendere la natura della materia oscura e dell’energia oscura che dominano l’universo – richiede l’osservazione di miliardi di galassie negli ultimi dieci miliardi di storia del cosmo su circa un terzo del cielo. E non solo: occorre misurare con accuratezza senza precedenti la forma e la posizione di queste galassie. Le prime, spettacolari immagini di Euclid, rilasciate lo scorso novembre, indicano che la missione è in grado di raggiungere questo obiettivo. Ma poi, come già riportato su Media Inaf la scorsa settimana, si era iniziata a registrare una graduale diminuzione della luce proveniente da stelle lontane che entrava all’interno di Vis – uno dei due strumenti di bordo, quello dedicato alle osservazioni nella banda della luce visibile. A causare l’attenuamento della luce ricevuta da Vis erano pochi nanometri di ghiaccio d’acqua che si era accumulato sulle ottiche, che pur non compromettendo la definizione delle immagini comportava una significativa diminuzione della sensitività dello strumento. L’acqua è inevitabile nella costruzione di un satellite, poiché i laboratori e le camere pulite in cui le varie componenti vengono testate e integrate devono lavorare in ambienti umidi per evitare scintille nell’elettronica. Una piccola frazione di quest’acqua penetra alcuni dei materiali presenti: in particolare, l’isolante multi-strato che protegge le sonde può assorbire acqua fino all’un percento della sua massa. E l’acqua, nel gelo dello spazio profondo, si trasforma in ghiaccio.
Ci sono voluti mesi e un grande lavoro di squadra per ideare una procedura di decontaminazione che potesse riscaldare i singoli specchi nel complesso sistema ottico dello strumento, senza però interferire con la precisa calibrazione di Euclid oppure introdurre ulteriore contaminazione. Finalmente, la procedura messa a punto per rimuovere lo strato di ghiaccio sulle ottiche ha funzionato – anzi, si è rivelata addirittura più efficace di quanto auspicato.
Il piano era quello di riscaldare gli specchi all’interno di Euclid uno per volta, e poi in gruppi, un gruppo alla volta, per verificare progressivamente l’effetto delle operazioni sulla luce incidente. Si sospettava che fosse uno in particolare di questi specchi a creare più problemi, e così la procedura ha avuto inizio proprio da questo elemento.
«Il nostro principale indiziato, lo specchio più freddo dietro all’ottica principale del telescopio, è stato riscaldato da -147°C a -113°C», nota Mischa Schirmer del Max Planck Institute for Astronomy di Heidelberg, membro del consorzio Euclid e tra i principali artefici del piano di decontaminazione. «Non c’era bisogno di riscaldarlo molto, poiché nel vuoto questa temperatura è sufficiente a far evaporare rapidamente tutto il ghiaccio. E ha funzionato a meraviglia!». Ci avevano preso: dopo aver riscaldato il primo specchio di soli 34 gradi per circa un’ora e mezza, la vista di Euclid era già stata ripristinata, ricevendo il 15 per cento di luce in più dall’universo. «Sapevo che avremmo notato un miglioramento considerevole, ma non in modo così spettacolare», aggiunge Schirmer.
«Il problema della contaminazione da ghiaccio è piuttosto comune nelle missioni spaziali», sottolinea Anna Di Giorgio dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), che coordina il contributo italiano alla missione finanziato dall’Agenzia spaziale italiana. «La soluzione decisa per Euclid di eseguire una decontaminazione di tipo “chirurgico”, in cui i singoli elementi ottici del payload sono stati riscaldati poco e uno alla volta – per evitare di disturbare termicamente l’intero satellite, inficiando così molte delle calibrazioni fatte sino ad oggi – si è rivelata vincente. È stato possibile eseguire un monitoraggio continuo del guadagno sul flusso misurato in funzione delle superfici ottiche interessate di volta in volta dal riscaldamento e si sono ottenute informazioni preziose per ogni eventuale ripetizione del procedimento in futuro. Il guadagno di circa il 15 per cento nel flusso misurato è una prova della efficienza della procedura adottata e permette di confermare la possibilità di concludere la survey di un terzo del cielo nei limiti di luminosità previsti dall’inizio ed entro i sei anni di vita della missione».
Il successo della procedura di decontaminazione ha permesso al team di individuare il punto esatto in cui si era formato il ghiaccio e dove è probabile che si formi di nuovo. Per questo si continueranno a monitorare attentamente sia gli specchi di Euclid che la luce ricevuta da Vis, e i risultati di questo primo esperimento di “sbrinamento” diventeranno una componente fondamentale della missione.
«Ci aspettiamo che il ghiaccio offuscherà nuovamente la visione dello strumento Vis in futuro», commenta Reiko Nakajima dell’Argelander Institut für Astronomie di Bonn, membro del team dello strumento Vis. «Ma sarà semplice ripetere questa procedura di decontaminazione selettiva ogni 6-12 mesi e con un costo minimo per le osservazioni scientifiche o per il resto della missione».
Guarda l’intervista a Mischa Schirmer sul canale YouTube di Euclid Consortium (in inglese):