Questa volta non sono qui a commentare le ultime scoperte della ricerca in astrofisica, ma a raccontare di un’esperienza in cui sono stato recentemente coinvolto e che mi ha davvero colpito. Sono stato infatti invitato a partecipare ad un congresso organizzato dalla Pontificia Accademia delle scienze e intitolato “Indigenous Peoples’ Knowledge and Sciences – Combining traditional knowledge and science on innovations for resilience to address climate change, biodiversity loss, food security, and health” (“Conoscenze e scienze delle popolazioni indigene – Combinare conoscenze tradizionali e scienza sulle innovazioni per la resilienza per affrontare i cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità, la sicurezza alimentare e la salute”). Che la Pontificia Accademia delle scienze organizzi un congresso su queste tematiche non è né insolito né sorprendente, visto che Papa Francesco ha chiesto all’Accademia di concentrarsi su tematiche che abbiano un impatto sociale, quindi legate per esempio alla medicina, all’alimentazione, alle migrazioni, al cambiamento climatico. Forse è un po’ più insolito che vi partecipi un astronomo…
All’evento hanno partecipato rappresentanti e studiosi delle popolazioni indigene di tutti i continenti (l’elenco completo è nel programma del congresso), che hanno raccontato le difficoltà che incontrano a vivere in un ambiente in cui gli spazi e le risorse naturali con cui hanno vissuto in equilibrio per secoli sono stravolti dall’espansione del mondo moderno. Il cambiamento climatico è un’altra fonte importante di tensione, in quanto minaccia la sopravvivenza di tante popolazioni abituate a usare i cicli naturali per le scelte legate alla loro sopravvivenza. Un caso eclatante sono le popolazioni nomadi che decidono i loro spostamenti in base alle combinazioni di segni naturali (meteorologici, botanici e astronomici) che sono spesso stravolti dai cambiamenti climatici. Oltre agli aspetti pratici, il confronto con il mondo moderno mette in discussione il sistema di conoscenze e di valori che le popolazioni indigene hanno sviluppato nei secoli. L’approccio razionale e riduzionista della scienza moderna è spesso in contrasto con la visione olistica delle culture tradizionali, in cui l’uomo è parte di un sistema unitario che comprende aspetti naturali e spesso spirituali, quando non magici.
So che vi state ancora chiedendo cosa ci faccia un astrofisico in un incontro di questo tipo: un po’ me lo sono chiesto anche io quando sono stato invitato. Il punto di partenza è in realtà ovvio: l’astronomia è una delle prime scienze che le popolazioni umane hanno sviluppato, e ancora oggi l’osservazione del cielo ha un ruolo importante in tante culture indigene. Mi è stato chiesto di raccontare cosa hanno imparato gli astronomi che osservano l’universo oggi, sperando che questo racconto possa stabilire una connessione con i diversi sistemi di conoscenza.
Preparare il mio intervento è stato diverso e più impegnativo che in altre conferenze. Senza venir meno al rigore scientifico, volevo trasmettere anche il rispetto verso le persone con cui andavo a dialogare e l’umiltà di chi sa che c’è ancora un universo da scoprire.
Usando le parole dei giganti del passato, come Galileo e Hubble, ho mostrato come gli astronomi di tutte le epoche abbiano seguito lo stesso approccio. Ho spiegato che partiamo da quel che possiamo vedere con i nostri occhi speciali, i telescopi, e inventiamo nuovi telescopi per aprire nuove finestre sull’universo, che ci consentono di vedere sempre più lontano e nel dettaglio. Ho raccontato che abbiamo scoperto ormai migliaia di pianeti che orbitano attorno ad altre stelle, e di come siamo capaci di studiare le loro caratteristiche e persino la composizione della loro atmosfera. Che ne abbiamo trovato di infiniti tipi, tutti diversi per composizione chimica, dimensione, temperatura, sfidando le nostre idee su come si formano i pianeti. Ho spiegato che abbiamo dimostrato che l’universo ha una storia, iniziata quasi 14 miliardi di anni fa nell’evento che chiamiamo Big Bang, che lo vediamo espandersi a una velocità sempre maggiore e che grazie ai nostri telescopi possiamo vedere indietro nel tempo e vedere come le stelle e le galassie sono nate e sono andate cambiando nel tempo.
Ma soprattutto ho raccontato quello che non abbiamo ancora scoperto o capito. Non abbiamo ancora trovato pianeti come la nostra Terra e pensiamo che ce ne siano milioni che aspettano di essere scoperti. Non sappiamo assolutamente se la vita sia diffusa o meno nell’universo, né quali siano le condizioni necessarie perché si sviluppi. Non sappiamo di cosa sia composto il 90 per cento dell’universo né cosa stia trascinando l’universo nella sua espansione: abbiamo solo due nomi affascinanti (materia ed energia oscura) e molte teorie, ma non sappiamo se ce ne sia almeno una giusta. Non sappiamo cosa sia stato il Big Bang, se ci sia stato qualcosa prima, o meglio se abbia senso chiederci cosa ci fosse prima. Sappiamo insomma che sono molti più i misteri ancora da scoprire che le scoperte che abbiamo fatto.
Ho concluso spiegando che almeno due cose ci legano a tutte le culture del mondo. La prima è il senso di meraviglia per le bellezze che scopriamo e per le forme che la natura prende nell’universo. La seconda è la lucida consapevolezza che l’universo non sia un posto amichevole per la vita e quanto sia prezioso conservare la Terra in cui ci troviamo a vivere: non sarà facile recuperare quanto stiamo distruggendo, né trovare altri posti da colonizzare.
Non volevo fare una lezione ma offrire spunti di dialogo con le persone venute lì da tutto il mondo. Viste le tante domande e curiosità che ho sollevato, spero di aver piantato un piccolo seme che possa crescere in futuro.
Per saperne di più:
- Leggi su Media Inaf l’articolo “Shared Sky, tutti sotto lo stesso cielo”
- Consulta su EduInaf la risorsa didattica dedicata per informarsi e dibattere dell’impatto delle grandi infrastrutture astronomiche sui territori e i loro abitanti, sviluppata dal gruppo di lavoro Univers@ll