Circa 4,5 miliardi di anni fa, un piccolo corpo delle dimensioni di Marte, chiamato Theia, si è schiantato contro il nostro pianeta, scaraventando grandi quantità di roccia fusa nello spazio. Lentamente, questi detriti si sono aggregati, raffreddati e solidificati, formando la Luna. A oggi, questo scenario – conosciuto come Teoria dell’impatto gigante – è l’ipotesi più accreditata dalla maggior parte degli scienziati per spiegare la formazione del nostro satellite naturale. Tuttavia, i dettagli di come ciò sia accaduto non sono ancora chiari. Quale sia l’esatto processo che abbia forgiato la Luna non è l’unica domanda che si pongono gli scienziati. Ce n’è un’altra, anzi due, che hanno a che fare con la sua evoluzione, in particolare con la sua composizione interna, che attendono ancora una risposta.
Il nostro satellite naturale presenta sulla sua superficie rocce vulcaniche contenenti un minerale molto denso, ricco di titanio e Kreep – acronimo inglese di kalium (potassio), rare earth elements (terre rare) e phosphorus (potassio). Questo minerale, chiamato ilmenite, è distribuito diversamente nelle due facce, visibile e nascosta, del nostro satellite, con la prima che presenta quantità maggiori rispetto al lato nascosto. Come è possibile che un minerale così denso sia presente in superficie? E ancora: quale processo lo ha concentrato nel lato visibile, rendendo il nostro satellite composizionalmente sbilenco?
Una possibile risposta a queste domande è arrivata nel 2022 grazie alle simulazioni condotte da un team di scienziati guidati dall’Università di Pechino. Secondo questo studio, la ilmenite si sarebbe depositata in superficie in seguito alla solidificazione di un oceano globale di magma. Questa solidificazione sarebbe avvenuta sopra a strati di roccia meno densi, provocando un’instabilità gravitazionale che è alla base di quello che gli addetti ai lavori chiamano ribaltamento del mantello. Secondo questo processo, nei millenni che seguirono la formazione della Luna, il minerale denso è sprofondato nel mantello, sciogliendosi e mescolandosi al suo interno, ma è poi ritornato in superficie sotto forma di lava, dove lo troviamo oggi in forma solidificata. In questo scenario, la concentrazione del minerale sul lato visibile della Luna sarebbe avvenuta prima del ribaltamento. I modelli suggeriscono infatti che il materiale ricco di titanio nella crosta sia prima migrato verso il lato più vicino della Luna; una migrazione probabilmente innescata da un gigantesco impatto sul lato opposto – l’impatto che ha formato il bacino Polo Sud-Aitken, il più grande bacino da impatto presente sulla Luna. Solo successivamente il minerale è sprofondato, ritornando infine in superficie con il ribaltamento.
Sebbene questo scenario sia molto interessante, fino a oggi non è stato avvalorato da prove osservative. Fino a oggi, appunto. Ora un team di ricerca guidato dall’Università dell’Arizona queste prove le ha trovate.
Nel nuovo studio, i cui risultati sono pubblicati su Nature Geoscience, i ricercatori hanno condotto simulazioni che modellano l’evoluzione nel tempo degli strati ricchi di ilmenite, il minerale contenente ferro e titanio (FeTiO3), comune nelle rocce lunari basaltiche. Hanno quindi confrontato questi modelli geodinamici con i dati di gravità ottenuti dal Gravity Recovery and Interior Laboratory (Grail), una missione della Nasa le cui sonde hanno rilevato anomalie lineari nella gravità localizzate proprio sulla faccia visibile della Luna.
Le indagini gravitazionali si basano sul principio che le variazioni della densità del sottosuolo provochino corrispondenti variazioni del campo gravitazionale locale. Materia ad alta densità, come ad esempio la ilmenite, esercita un’attrazione gravitazionale più forte rispetto ai materiali a bassa densità. Misurando queste variazioni gravitazionali, come ha fatto la missione Grail, gli scienziati possono dedurre la distribuzione di diversi tipi di rocce sotto la superficie lunare.
Confrontando i dati osservativi e i modelli, gli scienziati hanno scoperto che le variazioni di gravità misurate dalla missione Grail erano perfettamente coerenti con le simulazioni. E in entrambi, modelli e dati osservativi, ci sono le tracce di cumuli contenenti ilmenite nel mantello: la firma del minerale rimasto dopo il ribaltamento globale. Dati e modelli, dunque, raccontano la stessa storia; la storia dell’evoluzione del nostro satellite naturale.
«Le nostre analisi mostrano che le rocce ricche di ilmenite sono prima migrate muovendosi superficialmente verso il lato visibile della Luna e successivamente sono sprofondate all’interno del satellite in cascate simili a lamine, lasciandosi dietro le tracce che sono alla base delle anomalie nel campo gravitazionale rilevate da Grail», dice Weigang Liang, ricercatore presso il Lunar and Planetary Laboratory dell’Università dell’Arizona e primo autore della pubblicazione.
Nella loro indagine, i ricercatori vincolano anche la tempistica di questo evento. Le anomalie gravitazionali sono interrotte a livello dei più grandi e antichi bacini da impatto presenti sul lato visibile della Luna, e quindi devono essersi formate prima, sottolineano i ricercatori. Sulla base delle loro analisi, gli autori suggeriscono che lo strato ricco di ilmenite sia sprofondato prima di 4,22 miliardi di anni fa, il che è coerente con il contributo di questo evento al successivo vulcanismo osservato sulla superficie lunare, che ha riportato il minerale in superficie.
«Per la prima volta abbiamo evidenze fisiche che ci mostrano cosa è successo all’interno della Luna durante una fase critica della sua evoluzione», conclude Jeffrey Andrews-Hanna, professore all’Università dell’Arizona e co-autore della pubblicazione. «Abbiamo scoperto che la storia più antica della Luna è scritta sotto la sua superficie, ed è bastata la giusta combinazione di modelli e dati per svelarla».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Geoscience l’articolo “Vestiges of a lunar ilmenite layer following mantle overturn revealed by gravity data” di Weigang Liang, Adrien Broquet, Jeffrey C. Andrews-Hanna, Nan Zhang, Min Ding e Alexander J. Evans