Due chiamate dallo spazio hanno raggiunto il nostro pianeta nei giorni scorsi. Una è arrivata dal piccolo lander giapponese Slim, adagiato sul suolo lunare dal 20 gennaio scorso. L’altra da una vecchia conoscenza, la sonda Voyager 1 della Nasa, distante oltre 24 miliardi di km – il manufatto più lontano che ci sia. Per differenti ragioni, entrambe le chiamate – per quanto attesissime – erano tutt’altro che scontate.
Partiamo da quest’ultima. Lanciata nello spazio il 5 settembre 1977, appena due settimane dopo la sonda gemella Voyager 2, e giunta da tempo oltre il confine dell’eliosfera, dunque nello spazio interstellare, non è la prima volta che Voyager 1 mostra comprensibili segni di affaticamento. L’ultimo però stava preoccupando gli scienziati del Jet Propulsion Laboratory della Nasa più del solito: era infatti dal 14 novembre 2023 che la sonda non si faceva più viva. O meglio, non riusciva più a inviare dati leggibili: a Pasadena, in California, al centro di controllo della missione sapevano che la sonda continuava a ricevere i comandi e a funzionare normalmente, ma i pacchetti di telemetria, sia quelli scientifici che quelli ingegneristici, erano del tutto inutilizzabili.
Il responsabile, erano arrivati a stabilire gli ingegneri della Nasa il mese scorso, questa volta era uno dei tre computer di bordo della sonda: l’Fds (dall’inglese flight data subsystem), vale a dire il sottosistema per i dati di volo. Formato da due macchine a 16 bit, l’Fds ha il compito di impacchettare i dati scientifici e ingegneristici prima del loro invio verso la Terra. Compito che evidentemente non riusciva più ad assolvere in modo corretto. Un ingegnere del Deep Space Network della Nasa, la rete che gestisce le antenne radio che comunicano con le due sonde Voyager e con molte altre navicelle spaziali, era comunque riuscito a decodificare il segnale, scoprendo che conteneva una copia dell’intera memoria dell’Fds stesso. Un’informazione preziosa: confrontandola con una delle letture precedenti al malfunzionamento, è stato infatti possibile non solo comprendere la causa esatta del problema, ma anche come risolverlo. A produrre il malfunzionamento è stata la rottura di un chip responsabile della gestione di una porzione della memoria dell’Fds: poiché in quei banchi di memoria c’era parte del codice dello stesso Fds, non potervi più accedere aveva reso i dati scientifici e ingegneristici inutilizzabili.
Sounding a little more like yourself, #Voyager1.
For the first time since November, Voyager 1 is returning useable data about the health and status of its onboard engineering systems. Next step: Enable the spacecraft to begin returning science data again: https://t.co/eZyqo7uERu pic.twitter.com/6YZM33Mp48— NASA JPL (@NASAJPL) April 22, 2024
Come fare? Essendo impossibile riparare il chip, gli ingegneri della missione hanno deciso di spostare il codice su un’altra porzione di memoria. Non essendocene però una libera abbastanza ampia da ospitarlo per interno, hanno dovuto suddividerlo in parti più piccole e riadattarlo per far sì che potesse continuare a funzionare, sebbene non più contiguo ma spezzettato in tanti segmenti. Compito non semplice ed errori non ammessi, dovendo installare il tutto su un computer di mezzo secolo fa e a 24 miliardi di km dal più vicino servizio di riparazione.
Il team si è dunque messo all’opera trasferendo solo una parte del codice, quella dedicata all’impacchettamento dei dati ingegneristici. L’upload ha avuto inizio lo scorso 18 aprile, ma poiché viaggiando alla velocità della luce un segnale radio impiega oltre 22 ore per raggiungere la sonda e altrettante per tornare indietro, solo due giorni più tardi – il 20 aprile – è stato possibile ottenere una risposta: la modifica ha avuto successo. Per la prima volta in cinque mesi, è stato così possibile verificare lo stato di salute della navicella. Nel corso delle prossime settimane verranno ricollocate anche le restanti porzioni di codice, così che anche il flusso di dati scientifici dall’avamposto umano più remoto possa riprendere regolarmente.
Terzo risveglio per il lander lunare Slim
Nel frattempo, come dicevamo, dopo una lunga e gelida notte lunare – oltre 14 giorni terrestri al buio e con temperature che sfiorano i 170 gradi sotto zero – il 23 aprile sono giunti segni di vita anche dal lander giapponese Slim. Lo ha fatto sapere la Jaxa con un tweet comprensibilmente entusiastico, considerando che il piccolo modulo non era pensato per resistere così a lungo, né tanto meno si era messo in conto che avrebbe dovuto trascorrere la sua permanenza sulla Luna con il muso rivolto verso il basso.
We successfully communicated with #SLIM on 04/23, confirming that SLIM survived its 3rd night! This is the lunar surface taken by the navigation camera on 04/23. Because this was captured during the earliest Moon phase yet, the Moon is bright and shadows are short. #GoodAfterMoon pic.twitter.com/ppqanYWGvH
— 小型月着陸実証機SLIM (@SLIM_JAXA) April 25, 2024
E invece non solo si è risvegliato ma ha anche – non appena riaperti gli occhi – trovato l’energia, grazie ai pannelli solari, per scattare una foto e inviare l’immagine a terra: la possiamo vedere nel tweet qui sopra. Quella che Slim si è appena lasciato alle spalle è la sua terza notte lunare, e per sincerarsi se davvero l’abbia superata indenne è ora in corso un’analisi delle sue condizioni e dell’inevitabile deterioramento dovuto all’alternarsi di condizioni diurne e notturne rigidissime. Comunque sia, per il Giappone – quinto paese al mondo, dopo Unione Sovietica, Stati Uniti, Cina e India, ad aver compiuto con successo un approdo soft sul nostro satellite – è già un successo al di là di ogni aspettativa.