La mela non cade mai lontano dall’albero, si dice. Ma se raccogliessimo sotto lo stesso albero due mele assai diverse tra loro? È l’enigma innanzi al quale si trovano gli astronomi che studiano la composizione chimica di coppie di stelle binarie, dunque coppie di stelle nate dalla stessa nube molecolare – rispettivamente, le mele e l’albero della nostra analogia. Molti sistemi binari presentano infatti coppie dalla composizione chimica assai diversa, e un nuovo studio, pubblicato a febbraio su Astronomy & Astrophysics, ha ora confermato per la prima volta che questa diversità risale alla nube che le ha generate.
Si stima che fino all’85 per cento delle stelle esista in sistemi binari, alcune anche in sistemi con tre o più stelle. Queste coppie stellari nascono insieme dalla stessa nube molecolare e orbitano attorno al centro di massa del sistema. Essendosi formate dalla stessa nube, gli astronomi si aspetterebbero di osservare che abbiano sistemi planetari quasi identici e che condividano anche le abbondanze di elementi chimici, ma per molti sistemi non è così. Alcune delle spiegazioni proposte attribuivano le differenze a eventi accaduti dopo la formazione delle stelle coinvolte, a uno stadio di evoluzione già avanzato, ma il nuovo studio tende a escludere questa lettura.
Un team guidato da Carlos Saffe dell’Icate Conicet argentino, utilizzando lo spettrografo Ghost (Gemini High Resolution Optical Spectrograph) montato sul telescopio Gemini South, in Cile, ha studiato le diverse lunghezze d’onda – ovvero gli spettri – emessi da una coppia di stelle giganti (quelle del sistema binario HD 138202 + CD−30 12303). Gli astronomi, infatti, utilizzando gli spettri possono comprendere la composizione chimica di un oggetto; si potrebbero immaginare come le analisi del sangue dei corpi: ogni riga corrisponde a un elemento e indica se questo è presente e anche in quale quantità. I risultati hanno rivelato differenze significative nella composizione chimica delle due stelle giganti.
«Gli spettri di altissima qualità di Ghost hanno offerto una risoluzione senza precedenti», dice Saffe, «permettendoci di misurare i parametri stellari e le abbondanze chimiche delle stelle con la maggior precisione possibile». Queste misurazioni hanno rivelato che una stella aveva una maggiore abbondanza di elementi pesanti rispetto all’altra.
Ma perché questa discrepanza? Studi precedenti avevano proposto tre possibili spiegazioni per le differenze chimiche osservate tra le stelle binarie. Due di queste coinvolgono processi che si potrebbero verificare durante l’evoluzione delle stelle: la diffusione atomica, ovvero la sedimentazione degli elementi chimici in strati gradienti diversi a seconda della temperatura di ciascuna stella e della gravità superficiale; e l’inghiottimento di un piccolo pianeta roccioso, che introdurrebbe variazioni chimiche nella composizione della stella.
La terza possibile spiegazione, invece, suggerisce che le differenze abbiano origine in epoca primordiale, da disuniformità presenti già all’interno della nube molecolare. In termini più semplici, se la nube molecolare ha una distribuzione non uniforme di elementi chimici, le stelle nate all’interno di quella nube avranno composizioni diverse a seconda di quali elementi erano disponibili nel luogo in cui si sono formate.
Finora gli studi avevano concluso che tutte e tre le spiegazioni fossero probabili; tuttavia, questi studi si erano concentrati esclusivamente su binarie della sequenza principale. La “sequenza principale” — nome che deriva dal posizionamento di queste stelle su un diagramma HR — è lo stadio in cui una stella trascorre gran parte della sua esistenza: la maggior parte delle stelle nell’universo sono stelle della sequenza principale, compreso il Sole. Saffe e il suo team, invece, hanno osservato una binaria composta da due stelle giganti – una fase evolutiva al di fuori della sequenza principale. Queste stelle possiedono strati esterni estremamente larghi e fortemente turbolenti, ovvero zone convettive. Grazie alle proprietà di queste spesse zone convettive, il team è stato in grado di escludere due delle tre possibili spiegazioni.
Il continuo turbinio del fluido all’interno della zona convettiva renderebbe difficile la sedimentazione del materiale in strati, il che significa che le stelle giganti sono meno sensibili agli effetti della diffusione atomica — quindi è esclusa la prima spiegazione. Lo spesso strato esterno significa anche che un inghiottimento planetario non cambierebbe molto la composizione di una stella, poiché il materiale ingerito verrebbe rapidamente diluito, escludendo la seconda spiegazione. L’unica spiegazione confermata rimane così la presenza di disomogeneità primordiali all’interno della nube molecolare. «Questa è la prima volta che gli astronomi sono riusciti a confermare che le differenze tra le stelle binarie iniziano nelle prime fasi della loro formazione», sottolinea Saffe.
«Utilizzando le capacità di misurazione di precisione fornite dallo strumento Ghost, Gemini South sta ora raccogliendo osservazioni di stelle alla fine della loro vita per rivelare l’ambiente in cui sono nate», afferma Martin Still dell’Nsf, program director del Gemini Observatory. «Questo ci dà la possibilità di esplorare come le condizioni in cui si formano le stelle possono influenzare la loro intera esistenza per milioni o miliardi di anni».
Tre conseguenze di questo studio sono particolarmente significative. Innanzitutto, questi risultati offrono una spiegazione del motivo per cui gli astronomi vedono stelle binarie con sistemi planetari così diversi. «Diversi sistemi planetari», spiega Saffe, «potrebbero significare pianeti molto diversi – rocciosi, simili alla Terra, giganti di ghiaccio, giganti gassosi – che orbitano attorno alle loro stelle ospiti a distanze diverse e dove il potenziale per sostenere la vita potrebbe essere molto diverso». In secondo luogo, questi risultati rappresentano una sfida cruciale al concetto di classificazione chimica — l’utilizzo della composizione chimica per identificare stelle che provengono dallo stesso ambiente o nursery stellare — mostrando che stelle con composizioni chimiche diverse possono ancora avere la stessa origine. Infine, le differenze osservate in precedenza attribuite agli impatti planetari sulla superficie di una stella dovranno essere riviste, poiché ora potrebbero essere viste come presenti fin dall’inizio della vita della stella.
«Dimostrando per la prima volta che le differenze primordiali sono realmente presenti e responsabili delle differenze tra le stelle gemelle, dimostriamo che la formazione di stelle e pianeti potrebbe essere più complessa di quanto si pensasse inizialmente», conclude Saffe. «L’universo ama la diversità!»
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Disentangling the origin of chemical differences using GHOST” di C. Saffe, P. Miquelarena, J. Alacoria, E. Martioli, M. Flores, M. Jaque Arancibia, R. Angeloni, E. Jofré, J. Yana Galarza, E. González e A. Collado
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