LO STUDIO SU THE ASTROPHYSICAL JOURNAL

Buchi neri che hanno fretta di diventare grandi

Chi cresce prima, il buco nero centrale o la galassia? Se lo è chiesto un gruppo di ricercatori guidati dal Massachusetts Institute of Technology (Mit). Utilizzando i dati del telescopio spaziale James Webb, si è scoperto che la crescita dei buchi neri nel primo miliardo di anni dell’universo potrebbe anticipare quella della galassia ospitante, diversamente da quel che accade oggi

     10/05/2024

Immagine catturata da Webb di uno dei quasar protagonisti dalla ricerca. I due riquadri mostrano uno zoom sulla sorgente prima e dopo la sottrazione della luce del quasar. L’emissione residua è quella stellare (riquadro in basso). Crediti: Yue et al. 2024; Nasa.

Nell’ultimo quarto di secolo si è scoperto che le proprietà di galassie e buchi neri non sono distribuite a caso ma sono legate da precise relazioni di scala. Non stiamo parlando dei buchi neri stellari, relitti delle tumultuose e rapide esistenze delle stelle di grande massa, ma dei buchi neri supermassicci, oggetti con una massa di ordini di grandezza maggiore e le cui origini sono ancora avvolte nel mistero, e che risiedono nelle regioni nucleari delle galassie.

A dispetto del loro nome, i buchi neri supermassicci sono comunque molto piccoli rispetto alle galassie in cui dimorano. Nell’universo attuale si è riusciti a stimare con una certa accuratezza che la massa dei buchi neri è circa mille volte più piccola di quella delle galassie ospitanti. All’incirca la differenza che c’è tra il pianeta Giove e il Sole. Questa relazione di scala è stata osservata in numerose galassie vicine alla nostra. È come se la galassia “sapesse” del buco nero centrale e viceversa.

È sempre stato così? Nell’universo, regno della mutevolezza per eccellenza, non è detto infatti che ciò che avviene comunemente al giorno d’oggi sia sempre accaduto. Per rispondere a questa domanda è dunque necessario scrutare il cosmo nei suoi recessi più reconditi per stanare galassie e buchi neri durante l’infanzia dell’universo.

Più o meno è quello che hanno provato a fare alcuni ricercatori guidati da Minghao Yue, postdoc presso il Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Cambridge, negli Stati Uniti. Utilizzando il telescopio spaziale James Webb, Yue e collaboratori hanno osservato sei quasar, ovvero oggetti dalla luminosità prodigiosa dovuta all’accrescimento di materiale su un buco nero supermassiccio, la cui luce è stata emessa oltre tredici miliardi di anni fa. Durante l’infanzia dell’universo insomma. Obiettivo dell’osservazione: misurare la massa del buco nero centrale e della galassia ospitante. Più facile a dirsi che a farsi. I quasar sono oggetti così brillanti da sommergere letteralmente la luce delle stelle che risplendono nella galassia. L’astronomo che voglia misurarsi con l’osservazione di una galassia custode di un quasar, si troverà di fatto in una condizione non dissimile da chi voglia localizzare lo scintillio di una manciata di fiammiferi all’interno di un incendio.

Senza perdersi d’animo, gli autori dello studio, uscito lunedì su The Astrophysical Journal, hanno elaborato un modello per riprodurre l’emissione delle sorgenti osservate, in modo tale da sottrarre la luce emessa dal quasar e isolare l’emissione rimanente. Tale fioco segnale residuo è proprio la luce delle stelle che popolano la galassia ospitante, che può dunque essere convertita in una massa utilizzando delle relazioni opportune. La tecnica, utilizzata anche in altri studi, comporta notevoli difficoltà, tant’è che l’ardua misurazione è riuscita solo per tre dei sei quasar osservati nel programma.

Una volta stimata la massa della galassia, l’ingrediente mancante è la massa del buco nero. La misura di questa quantità risulta in confronto meno problematica e può essere effettuata attraverso le righe di emissione del gas che ruota forsennatamente nelle vicinanze del buco nero. Con le due masse a disposizione, gli astronomi hanno potuto confrontare la massa dei buchi neri con quella delle galassie, provando a replicare quel che viene fatto nell’universo attuale. E pare che ci siano delle sorprese.

Se, come dicevamo, nelle galassie vicine la massa del buco nero è un millesimo di quella della galassia ospitante, nel primo miliardo di anni dell’universo il rapporto fra queste due quantità risulta essere di uno a dieci. Non più come Giove e il Sole, piuttosto come Marte e la Terra. Questo ha delle implicazioni in ambito astrofisico. Sembra infatti che i buchi neri crescessero più rapidamente nel passato rispetto a quanto avviene attualmente. «Dev’esserci stato qualche meccanismo che consenta ai buchi di accrescere la propria massa prima delle galassie ospitanti nei primi miliardi di anni», afferma il primo autore dell’articolo.

Fondamentale è stato l’utilizzo del telescopio Webb, puntato per oltre cento ore sui quasar protagonisti dello studio. «La risoluzione delle immagini precedenti non era infatti sufficiente per distinguere le galassie ospitanti», spiega Yue. La ricerca fa parte del programma Eiger, che si propone di studiare le proprietà dei quasar e l’ambiente in cui risiedono un miliardo di anni dopo il Big Bang.

Può questo studio dirci qualcosa riguardo a come si formano i buchi neri supermassicci? Come si diceva agli inizi, misteriose sono infatti le origini di questi oggetti. I modelli attuali prevedono masse che possono variare fra le cento e e le centomila volte la massa del Sole per quelli che potrebbero essere stati i nuclei originari dei buchi neri. A tal proposito Anna-Christina Eilers, seconda autrice dell’articolo, afferma «Questi buchi neri sono miliardi di volte più massicci del Sole, in un tempo in cui l’universo era ancora nella sua infanzia. I nostri risultati implicano che nell’universo lontano, i buchi neri supermassicci sembrano crescere più rapidamente rispetto alle galassie che li ospitano e che i “semi” iniziali da cui sono nati i buchi neri potrebbero essere stati più massicci all’epoca che al giorno d’oggi».

Non c’è da aspettare che uno studio simile venga esteso a campioni più vasti di quasar distanti per comprendere meglio come si evolvono le relazioni fra galassie e buchi neri e svelare l’enigma sull’origine di questi ultimi.

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