Le primissime stelle che si sono accese dopo il Big bang sono quelle che hanno dato l’impronta chimica all’universo in cui viviamo oggi, e che hanno preparato il terreno sul quale sono nate ed evolute tutte le stelle successive. Per distinguerle da queste, gli astronomi hanno chiamato le stelle di prima generazione popolazione III, e da quando hanno capito che le altre due generazioni conosciute e osservate – le popolazioni II e I – non bastavano a spiegare l’esistente, le stanno cercando. Senza risultati convincenti.
Su The Astrophysical Journal Letters è stata pubblicata, per mano di un gruppo di ricercatori di Hong Kong, una nuova idea: invece di provare a osservarle direttamente, si può cercare le stelle di Popolazione III attraverso l’emissione che produrrebbero qualora fossero entrate in contatto con un buco nero massiccio.
L’idea è promettente per almeno due motivi. Il primo, il più ovvio, è che finora la ricerca diretta non ha sortito alcun effetto. Le stelle di Popolazione III erano infatti tremendamente calde, di dimensioni e massa gigantesche, ma di vita molto breve. Vivevano nell’universo primordiale, e quindi molto lontano, e apparirebbero, agli occhi degli attuali telescopi a terra o nello spazio, troppo deboli.
Il secondo è che il meccanismo proposto, invece, produrrebbe un’emissione rilevabile da alcuni telescopi attualmente operativi – come il James Webb Space Telescope – o in costruzione – come il Nancy Grace Roman Telescope. Vediamo perché.
Passando abbastanza vicino a un buco nero massiccio una stella può essere fatta a pezzi dalle forze mareali generate dal suo intensissimo campo gravitazionale, in quello che in inglese si definisce tidal disruption event (Tde). Succede nell’universo attuale e succedeva nell’universo primordiale, in cui le uniche stelle in circolo erano quelle di Popolazione III. E mentre il buco nero si nutre dei detriti stellari, produce brillamenti molto luminosi, che gli autori dello studio hanno investigato a fondo dimostrando che potrebbero percorrere miliardi di anni luce e giungere fino a noi. Arrivando, per altro, con delle caratteristiche uniche rispetto a tutti gli altri. Viaggiando da una distanza così lontana, infatti, lungo il tragitto risentirebbero dell’espansione dell’universo che ne allungherebbe la durata. Questi brillamenti sorgerebbero e decadrebbero, pertanto, in un periodo di tempo molto più lungo rispetto agli analoghi più recenti. Non solo, anche la loro lunghezza d’onda, come per qualunque radiazione proveniente da lontano – per effetto del cosiddetto redshift cosmologico – si sposterebbe dall’ottico/ultravioletto all’infrarosso.
Dove cercare questi eventi, però? A priori, una domanda alla quale non si può dare una risposta. Per questo l’arrivo di un telescopio come il Nancy Grace Roman potrebbe fare la differenza: sarà infatti in grado di coniugare una perfetta visione nell’infrarosso a grandissima distanza con un grande campo di vista, in grado di cogliere, a una sola occhiata, una vasta area di cielo. Gli autori dello studio si sono anche sbilanciati in previsioni sul numero di eventi che potrebbero essere trovati: «se viene seguita una strategia osservativa adeguata» – dicono – «ci aspettiamo alcune dozzine di rilevazioni». Il lancio del Nancy Grace Roman è ora programmato per il 2027: staremo a vedere.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Detecting Population III stars through tidal disruption events in the era of Jwst and Roman“, di Rudrani Kar Chowdhury, Janet N. Y. Chang, Lixin Dai e Priyamvada Natarajan