DATI DI QUALITÀ SBALORDITIVA, PRESENTATI OGGI ALL’EAS

Jwst cattura la drammatica fusione quasar-galassie

Osservate con il telescopio spaziale James Webb le interazioni tra un lontanissimo quasar e due galassie satelliti massicce nell’universo lontano, a meno di un miliardo di anni dopo il Big Bang. Lo studio, guidato da Roberto Decarli e Federica Loiacono dell’Inaf di Bologna, conferma che si tratta un sistema estremamente evoluto, sia in termini di massa che di evoluzione chimica

     05/07/2024

Mappa delle emissioni di riga dell’idrogeno (in rosso e blu) e ossigeno (in verde), nel sistema PJ308-21, mostrato dopo aver mascherato la luce del quasar centrale (“Qso”). I diversi colori della galassia ospite del quasar e delle galassie compagne in questa mappa rivelano condizioni e proprietà fisiche del gas al loro interno. Crediti: Decarli et. al / Inaf / A&A 2024

Un gruppo internazionale di ricerca guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha utilizzato lo spettrografo nel vicino infrarosso NirSpec a bordo del James Webb Space Telescope (Jwst, di Nasa, Esa e Csa) per osservare la drammatica interazione tra un quasar all’interno del sistema PJ308–21 e due galassie satelliti massicce nell’universo lontano. Le osservazioni, realizzate a settembre 2022, hanno rivelato dettagli senza precedenti fornendo nuove informazioni sulla crescita delle galassie nell’universo primordiale. I risultati sono stati riportati in un recente articolo in pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics e presentati oggi durante il meeting della European Astronomical Society (Eas) a Padova.

Il quasar in questione (già descritto dagli stessi autori in un altro studio pubblicato lo scorso maggio), uno dei primi osservati con il Near Infrared Spectrograph (NirSpec) quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni (redshift z = 6,2342), ha rivelato dati di una qualità sensazionale: lo strumento ha “catturato” il suo spettro con un’incertezza inferiore all’1 per cento per pixel. La galassia ospite del quasar PJ308–21 mostra un’alta metallicità e condizioni di fotoionizzazione tipiche di un nucleo galattico attivo (Agn), mentre una delle galassie satelliti presenta una bassa metallicità e fotoionizzazione indotta dalla formazione stellare; la seconda galassia satellite è caratterizzata invece da una metallicità più elevata ed è parzialmente fotoionizzata dal quasar. Per metallicità si intende l’abbondanza di elementi chimici più pesanti di idrogeno ed elio. La scoperta ha permesso di determinare la massa del buco nero supermassiccio al centro del sistema (circa due miliardi di masse solari) e di confermare che sia il quasar che le galassie circostanti sono altamente evolute, in termini di massa e di arricchimento metallico, e in costante crescita.

«Il nostro studio», spiega Roberto Decarli, ricercatore presso l’Inaf di Bologna e primo autore dell’articolo, «rivela che sia i buchi neri al centro di quasar ad alto redshift, sia le galassie che li ospitano, attraversano una crescita estremamente efficiente e tumultuosa già nel primo miliardo di anni di storia cosmica, coadiuvata dal ricco ambiente galattico in cui queste sorgenti si formano». I dati sono stati ottenuti nel settembre 2022 nell’ambito del Programma 1554, uno dei nove progetti a guida italiana del primo ciclo osservativo di Jwst. Decarli è alla guida di questo programma che ha come obiettivo osservare proprio la fusione fra la galassia che ospita il quasar (PJ308-21) e due sue galassie satelliti.

Rappresentazione artistica degli specchi del James Webb Space Telescope. Crediti: Jwst/Nasa/Esa

Le osservazioni sono state realizzate in modalità di spettroscopia a campo integrale: per ogni pixel dell’immagine si ottiene l’intero spettro della banda ottica nel sistema di riferimento delle sorgenti osservate, che a causa dell’espansione dell’universo viene osservato nell’infrarosso. Ciò consente di studiare vari traccianti del gas (righe di emissione) con un approccio 3D. Grazie a questa tecnica, il team (formato da 34 istituti di ricerca e università di tutto il mondo) ha rilevato emissioni spazialmente estese di diverse righe di emissione, che sono state utilizzate per studiare le proprietà del mezzo interstellare ionizzato, comprese la fonte e la durezza del campo di radiazione fotoionizzante, la metallicità, l’oscuramento della polvere, la densità elettronica e la temperatura, e il tasso di formazione stellare. Inoltre, è stata rilevata marginalmente l’emissione di luce stellare continua associata alle sorgenti compagne.

«Grazie a NirSpec, possiamo per la prima volta studiare, nel sistema PJ308-21, la banda ottica ricca di preziosi dati diagnostici sulle proprietà del gas vicino al buco nero nella galassia che ospita il quasar e nelle galassie circostanti», commenta entusiasta Federica Loiacono, astrofisica, assegnista di ricerca in forze all’Inaf di Bologna e coautrice dell’articolo. «Possiamo vedere, per esempio, l’emissione degli atomi di idrogeno e confrontarla con quella degli elementi chimici prodotti dalle stelle, per stabilire quanto sia ricco di metalli il gas nelle galassie. L’esperienza ottenuta nella riduzione e calibrazione di questi dati, alcuni dei primi collezionati con NirSpec in modalità di spettroscopia a campo integrale, ha assicurato un vantaggio strategico per la comunità italiana rispetto alla gestione di dati simili». Loiacono è la referente italiana per la riduzione dei dati NirSpec al Jwst Support Centre dell’Inaf, che assiste la comunità astronomica italiana nell’uso dei dati provenienti dal potente osservatorio spaziale.

«Grazie alla sensibilità del James Webb Space Telescope nel vicino e medio infrarosso», continua Loiacono, «è stato possibile studiare lo spettro del quasar e delle galassie compagne con una precisione senza precedenti nell’universo lontano. Solo l’eccellente “vista” offerta da Jwst è in grado di assicurare queste osservazioni». Il lavoro ha rappresentato un vero e proprio «rollercoaster emotivo», aggiunge Decarli, «con la necessità di sviluppare soluzioni innovative per superare le difficoltà iniziali nella riduzione dei dati».

Decarli conclude sottolineando la straordinaria importanza degli strumenti a bordo del telescopio Webb: «Fino a un paio di anni fa, dati sull’arricchimento dei metalli (indispensabile per capire l’evoluzione chimica delle galassie) erano quasi al di là della nostra portata, soprattutto a queste distanze. Ora possiamo mappare in dettaglio con poche ore di osservazione anche in galassie osservate quando l’universo era agli albori».

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