È il 12 luglio di due anni fa, l’Europa si sta riprendendo dalle ondate di calore di giugno e si appresta ad affrontarne di nuove, in quello che si rivelerà essere uno dei mesi di luglio più caldi della storia recente. Anche nella comunità astronomica c’è grande fervore. Figurativo, s’intende. La primissima immagine a colori del telescopio spaziale James Webb (Jwst), resa pubblica a sorpresa durante la notte, ha già strabiliato gli occhi di mezzo mondo con un tripudio di galassie, ma il meglio – si mormora – deve ancora venire. Si attende con trepidazione la diretta web durante la quale le agenzie spaziali statunitense, europea e canadese sveleranno altri quattro ritratti dell’universo immortalato dal nuovo gioiello dell’astrofisica.
Le prime immagini di Jwst: due anni dopo
Allo Space Telescope Science Institute (Stsci) di Baltimora, invece, si inizia finalmente a respirare. Da oltre un mese, più di trenta persone stanno lavorando senza indugio per consegnare all’umanità un regalo cosmico mai visto prima. «Per via delle tempistiche imposte dalle fasi di lancio, dispiegamento e controllo orbitale di Jwst, il nostro lavoro sulle Early Release Observations (Ero) è stato compresso in un periodo di sei settimane, dall’inizio di giugno fino al 12 luglio 2022», racconta a Media Inaf Joe DePasquale, principal science visuals developer presso l’Office of Public Outreach a Stsci. «All’interno di questa finestra di sei settimane, abbiamo osservato con successo tutti gli obiettivi che avevamo scelto, abbiamo ridotto i dati, applicando la migliore calibrazione allora possibile, e infine abbiamo elaborato le immagini a colori. È stato un periodo incredibilmente stressante e allo stesso tempo magico».
In quelle sei settimane, DePasquale e il team Webb Ero, composto da scienziati, grafici e redattori scientifici, si riunivano quotidianamente per esaminare i dati più recenti e monitorare il programma di osservazione, in vista della tanto sospirata release. Il resto, lo sappiamo, è storia. Non solo dell’astronomia o della comunicazione scientifica. Storia della cultura pop. Le prime immagini di Jwst hanno collezionato duecento miliardi di impressioni online. Con una popolazione globale che, nel luglio 2022, sfiorava gli otto miliardi, questo significa che ogni persona sulla Terra con accesso a canali di notizie o a una connessione internet ha avuto molteplici opportunità di ammirarle. E se quegli scatti “rubati” al cosmo sono in grado di parlare a un pubblico di gran lunga più vasto di coloro che intendono analizzare scientificamente i dati di Jwst, uno degli artefici è proprio DePasquale.
«Non avrei mai immaginato di potermi trovare in questa posizione», ammette. «Sapevo di voler lavorare nel campo dell’astronomia e intuitivamente sapevo che erano sempre gli aspetti visivi dell’astronomia a catturare la mia immaginazione, ma non pensavo nemmeno che questo tipo di lavoro esistesse». Finiti gli studi in astronomia all’Università di Villanova, Pennsylvania, a cavallo del nuovo millennio si trasferisce a Boston, dove di giorno lavora all’analisi e calibrazione dati del telescopio spaziale Chandra della Nasa, mentre di sera frequenta corsi di formazione in grafica, design e pittura e suona in una band attiva ancora oggi. Questa commistione di interessi lo porta a cambiare carriera: dai dati di Chandra passa alla divulgazione, iniziando a elaborare le immagini del potente telescopio a raggi X per far apprezzare le sue osservazioni dell’universo energetico al grande pubblico.
Da una missione all’altra, il salto è breve. «Quando ero a Villanova», ricorda DePasquale, «sentivo parlare dei piani per il Next Generation Space Telescope, che sarebbe poi diventato il telescopio spaziale James Webb. Ho sempre pensato che una carriera a lungo termine nel campo dell’astronomia avrebbe probabilmente coinvolto questo telescopio». Così, quando nel 2016 legge l’annuncio di una posizione nel campo dell’elaborazione di immagini aperta da Stsci in vista del lancio di Jwst, non si lascia scappare l’occasione. Certo, trasferirsi da Boston a Baltimora con tutta la famiglia è un bel cambiamento, ma ancora oggi ammette di doversi dare un pizzicotto almeno una volta a settimana per assicurarsi di non star sognando.
Ma i colori sono veri?
«La maggior parte del mio lavoro consiste nel produrre immagini composite a colori a partire dalle osservazioni monocromatiche dei telescopi spaziali Webb o Hubble», chiarisce DePasquale. Le fotocamere di Jwst, come quelle di Hubble e di tutti i telescopi, raccolgono immagini monocromatiche. In bianco e nero. Certo, usando filtri disparati sono in grado di cogliere le molteplici “sfumature” dell’universo, osservando stelle, nebulose e galassie in tutti i colori: non solo quelli percepibili dall’occhio umano ma anche e soprattutto quelli – molto più numerosi – a cui i nostri occhi sono ciechi.
Jwst è un esempio da manuale: il potente osservatorio spaziale scruta il cielo nelle lunghezze d’onda, a noi invisibili, dell’infrarosso. Le immagini che raccoglie quotidianamente sono “istantanee” – si fa per dire, poiché richiedono generalmente diverse ore di osservazione – dello stesso corpo celeste in tanti filtri diversi. Separatamente.
Quando arrivano a Terra, ciascuna di queste immagini ha l’aspetto di una fotografia in bianco e nero. Ogni punto di ogni immagine – o pixel, del resto parliamo di immagini digitali – porta un pezzetto di informazione: quanta luce il telescopio ha misurato in quella direzione e in quella particolare lunghezza d’onda. A prima vista, potrebbero sembrare tutte uguali. Guardando con attenzione, però, ogni “bianco e nero” è diverso dagli altri, e a seconda del filtro adoperato racchiude indizi diversi sulla composizione chimica e le proprietà fisiche di quell’oggetto.
«Spesso le persone ci chiedono se queste immagini sono reali, se sono effettivamente quello che potrebbero vedere anche loro», aggiunge la collega Alyssa Pagan, science visuals developer presso l’Office of Public Outreach a Stsci. «Assicuriamo loro sempre, e con enfasi, che si tratta di dati veri che sono stati catturati dallo spazio, quindi di immagini reali, anche se c’è necessariamente un livello di interpretazione e traduzione per trasmettere qualcosa che non possiamo vedere».
Assegnare colori alla luce che non siamo in grado di vedere, sottolinea, è un po’ come trasporre una musica da un’ottava che solo i cani possono sentire, a un’altra ottava udibile per gli esseri umani. «La melodia e il rapporto tra le varie note rimangono gli stessi se la spostiamo di un’ottava verso il basso o verso l’alto in modo da potercela godere», suggerisce l’esperta di grafica astronomica. Ogni immagine ha una storia diversa. A seconda delle esigenze scientifiche, Jwst può osservare con diversi filtri, su un un campo di vista più o meno esteso, per un tempo più o meno lungo. Una volta raccolti i dati, inizia il lavoro di Pagan, DePasquale e colleghi.
«Selezioniamo filtri specifici che esaltano i dettagli e comunicano la scienza dell’oggetto astronomico nel modo più chiaro ed esteticamente accattivante», spiega Pagan. «Abbiniamo i colori ai filtri in ordine cromatico applicando alla luce infrarossa lo stesso sistema con cui vediamo la luce visibile». Niente di nuovo: pensiamo a una delle immagini astronomiche più famose, i “Pilastri della Creazione”, opera del telescopio spaziale Hubble.
Si tratta in realtà di tre immagini, corrispondenti a tre diverse lunghezze d’onda della luce visibile: una più corta, una intermedia e un’altra più lunga. Tre immagini monocromatiche. In bianco e nero. Per creare quella a colori, all’immagine ottenuta nel filtro corrispondente alla lunghezza d’onda più corta viene assegnato il canale corrispondente al blu (colore che ha effettivamente lunghezza d’onda più corta) e poi, a seguire, alle immagini ottenute nei filtri a lunghezze d’onda maggiori vengono assegnati rispettivamente il canale verde e poi quello rosso.
È la tecnica alla base della fotografia digitale a colori: si chiama Rgb e la usiamo ogni volta che scattiamo una foto con il nostro cellulare. Solo che con Jwst c’è un livello di astrazione aggiuntivo, sempre per quella storia dell’infrarosso: non possiamo associare i “colori” corrispondenti alle lunghezze d’onda dei filtri osservati perché, semplicemente, non potremmo vederli. Così il team di Stsci trasforma le lunghezze d’onda dell’infrarosso nei colori visibili «in modo che ai filtri con la lunghezza d’onda più corta venga assegnato il canale blu», nota Pagan, «e ai filtri con la lunghezza d’onda più lunga venga assegnato il rosso».
Al cospetto di Hubble
Pagan ha un percorso complementare rispetto a quello del collega DePasquale: inizia con studi di arte e design alla Towson University, contea di Baltimora, poi la curiosità verso il cosmo la porta a intraprendere una seconda laurea, questa volta in astronomia, all’Università del Maryland, College Park. Non ha in mente punti d’incontro tra le due strade, segue soltanto la sua passione.
Passa qualche anno prima del momento “eureka”, durante il corso di astronomia osservativa: «è stato allora che ho capito che c’era qualcuno dietro la produzione di tutte quelle belle immagini accattivanti che avevo visto dello spazio», precisa, «e che il telescopio spaziale Hubble non “sputava fuori” le immagini così». Sulle tracce di quelle splendide visioni dell’universo e del processo dietro la loro composizione, Pagan scopre il centro Stsci di Baltimora e inizia a seguire quasi compulsivamente la pagina web con le opportunità lavorative dell’istituto. Finché non appare l’annuncio di un lavoro. Un lavoro da sogno. «Questo lavoro descriveva una nicchia molto specifica di abilità artistiche e scientifiche che, in maniera assolutamente casuale, avevo forgiato».
Quando si unisce al team, nel 2019, manca ormai poco al lancio di Jwst. Certo, considerata la lunghissima storia di rinvii, con tanto di rischi che l’intera missione potesse essere cancellata, le precauzioni non sono mai troppe. Finalmente, il giorno di Natale del 2021 il più “canzonato” dei telescopi spaziali prende il volo e, sarà forse anche per tutti quei ritardi che hanno permesso di controllare ogni cosa, tutto funziona alla perfezione. «Riuscivo a malapena a contenere l’entusiasmo», ricorda DePasquale. Il team segue il lancio e la complessa sequenza di dispiegamento con il fiato sospeso. «Quando sono arrivate le prime immagini ingegneristiche per verificare l’allineamento dello specchio, sapevamo che l’osservatorio era in condizioni ottimali e pronto per iniziare le osservazioni».
La scelta dei primi corpi celesti su cui posare l’ambizioso “occhio” da dieci miliardi di dollari di Jwst è un esercizio tutt’altro che banale a cui un gruppo di lavoro internazionale, formato da rappresentanti delle varie agenzie spaziali coinvolte nella missione, sta lavorando già da anni. DePasquale, che ne fa parte sin dai primi giorni a Stsci, ricorda i tantissimi target analizzati, target che coprono un’ampia varietà di fenomeni astrofisici per poter dimostrare al meglio le capacità del nuovo osservatorio. Viste le enormi incertezze sulla data di lancio, nulla può essere lasciato al caso. «Bisognava tenere in considerazione il fatto che Webb riesce a vedere solo alcune porzioni di cielo nei diversi periodi dell’anno«, continua. «Se il lancio fosse stato ritardato, come è avvenuto più volte, gli obiettivi a nostra disposizione sarebbero completamente cambiati. Abbiamo dovuto pianificare tutto questo e mettere su diversi programmi di osservazione di emergenza a seconda di quando sarebbe effettivamente avvenuto il lancio».
Un lavoro arduo, impegnativo, meticoloso, con sfide e imprevisti ma anche un piccolo, grande privilegio: Pagan e DePasquale sono tra i primi al mondo a poter contemplare le nuove immagini mozzafiato del cosmo. «Quando ho visto per la prima volta i dati di Jwst sono rimasta sbalordita, estasiata e anche sollevata», confessa Pagan, richiamando alla mente il momento in cui, in una sala riunioni a Stsci, sono arrivati i primi dati: era la Nebulosa della Tarantola, un’enorme nube di gas e polvere nella quale prendono forma nuove stelle. In gergo, la chiamano 30 Doradus, perché si trova nella costellazione del Dorado, rappresentata in molti atlanti celesti come un pesce spada.
«È stato il nostro primo assaggio dell’incredibile risoluzione e nitidezza del telescopio», aggiunge DePasquale. «Eppure, mi chiedevo ancora se le immagini sarebbero state colorate e drammatiche come quelle di Hubble». Scientificamente, è sempre stato evidente che Jwst avrebbe cambiato completamente la nostra visione del cosmo, ma agli occhi del grande pubblico, sarebbe stato in grado di competere con un’icona del calibro di Hubble? L’esperto di grafica astronomica non dissimula le perplessità serbate a lungo, finché finalmente, una volta assemblata per la prima volta la composizione cromatica della nebulosa, tutte le preoccupazioni si sono dissolte.
NirCam: la vedetta del vicino infrarosso
Non poteva augurarsi un miglior successore, il buon vecchio Hubble che, anche con qualche acciacco, continua a fornire il suo lodevole servizio alla comunità astronomica. Lo pensa anche Mario Gennaro, astrofisico italiano che, sempre in quel di Baltimora, coordina le operazioni scientifiche di NirCam (Near Infrared Camera), una delle due fotocamere di bordo, quella dedicata al vicino infrarosso – le lunghezze d’onda di poco maggiori rispetto alla luce visibile – a cui dobbiamo le spettacolari immagini che oggi popolano ogni angolo del web. «Jwst è già diventato famoso come il suo predecessore», afferma Gennaro a Media Inaf. «L’impatto nell’immaginario pubblico, il modo in cui Hubble ha avvicinato la gente comune all’astronomia, è stato unico. Avevamo bisogno di un degno erede, e penso che Jwst si stia rivelando assolutamente all’altezza».
Certo, NirCam non si limita a scattare splendide fotografie del cosmo, ci tiene a precisare l’astrofisico originario di Lecce, laurea a Pisa, dottorato a Heidelberg, in Germania, approdato a Stsci in tempi non sospetti, quando il lancio di Jwst era ancora un appuntamento lontano. «NirCam è una macchina molto versatile con un sacco di capacità: è la fotocamera con i pixel più raffinati di Jwst, e permette di raggiungere il massimo livello di dettaglio possibile». Ma è in grado di fare molto altro, dalla spettroscopia alle osservazioni su periodi di tempo molto lunghi – da molte ore ad alcuni giorni – per cercare piccolissime variazioni nella luminosità, fino alla coronografia, per schermare la luce proveniente da sorgenti molto brillanti e isolare oggetti più fiochi. Le ultime due caratteristiche fanno di Jwst un eccellente cacciatore di pianeti extrasolari, tematica ritenuta quasi futuristica quando la missione è stata progettata, negli anni Novanta del secolo scorso, a cui oggi è dedicata una frazione significativa del tempo dell’osservatorio.
NirCam funge anche da “vedetta” tecnica per tutto l’osservatorio. «Siamo il sensore di fronte d’onda di Jwst», aggiunge Gennaro. «Grazie a delle ottiche speciali, NirCam permette ai nostri esperti di misurare, ogni due giorni, le deviazioni del fronte d’onda rispetto allo stato “nominale” per decidere se dobbiamo fare dei piccoli aggiustamenti ai 18 segmenti dello specchio primario e “rimetterli in asse”. In questo modo tutti gli strumenti di Jwst, non solo NirCam, godono della miglior possibile qualità dell’immagine».
Sarà per questo che, alle immagini di fantasmagoriche nebulose, ne preferisce un’altra, più sobria. Ritrae una stella. Una sola stella, in primo piano. «Non è spettacolare, ma ha un valore immenso per me che ci ho lavorato», commenta l’astrofisico, ripensando alla foto scattata a marzo del 2022, in pieno commissioning. «È l’immagine ufficiale di quando abbiamo detto: “Lo specchio è perfettamente allineato, NirCam è perfettamente a fuoco, tutto è perfetto, meglio di ciò che potevamo immaginare”. Il prodotto finale del lavoro di centinaia di persone che hanno pensato, costruito e operato Jwst, e in particolare NirCam».
Non serve aguzzare la vista per scorgere, anche in questa immagine puramente tecnica, realizzata per verificare l’allineamento delle ottiche di bordo, una moltitudine di galassie che fanno capolino dall’universo lontano. Basta sbirciare tra le “punte” della stella, quei picchi di diffrazione dalla forma caratteristica a raggiera che abbiamo imparato a riconoscere in tutte le immagini che da allora sforna il telescopio. Di cosa si tratta?
«Spesso ricevo domande dal pubblico su questi artefatti quando presento le immagini di Jwst: mi chiedono se rappresentano la realtà e, in caso contrario, da cosa sono causati», riferisce a Media Inaf Nathalie Nguyen-Quoc Ouellette, Jwst Canadian outreach scientist all’Università di Montreal, nella provincia canadese del Quebec. «Spiego loro che queste stelle sono molto luminose ed essenzialmente “disperdono” la loro luce, ma il modo in cui lo fanno dipende esclusivamente dalla forma dello specchio del telescopio utilizzato». La maggior parte delle immagini astronomiche a cui avevamo fatto l’abitudine, prima di Jwst, provengono infatti da telescopi con uno specchio circolare, come lo stesso Hubble o i quattro giganti da otto metri che formano il Very Large Telescope dell’Eso. In quel caso, la luce delle stelle, anziché in un punto viene “spalmata” su un piccolo disco di forma circolare, circondato da anelli concentrici, con quattro punte che richiamano i quattro elementi di sostegno dello specchio secondario.
«Poiché Jwst ha uno specchio così unico, la sua struttura conferisce una firma diversa ai picchi di diffrazione, dando luogo a questi sei grandi picchi con due mini picchi al centro della linea orizzontale», aggiunge Ouellette, che paragona queste figure di diffrazione alla “firma” che un artista appone sulle proprie opere. «Se stai guardando l’immagine di un telescopio spaziale e non sai con certezza quale telescopio l’abbia scattata, puoi cercare questi picchi di diffrazione e controllare se corrispondono alla firma di Jwst o a quella di Hubble, per esempio. È un bel trucchetto per impressionare gli amici, per chi ha amici nerd come me!».
Dalla scienza alle immagini – e viceversa
È passato un anno, è sempre il 12 luglio, siamo nel 2023 e la temperatura è ancora più alta. Tra le ondate di calore che imperversano nell’estate dell’emisfero nord, in un mese destinato a diventare il più caldo mai registrato (finora…), la comunità astronomica celebra il primo anno di scienza con Jwst. Centinaia di nuove pubblicazioni, nuove scoperte e, soprattutto, nuove domande.
A Stsci, si festeggia con una nuova immagine dalle sfumature tenui, che ricorda quasi un quadro impressionista. Raffigura la gigantesca nube chiamata Rho Ophiuchi, il vivaio stellare più vicino alla Terra. Tra i vortici intricati di gas e polvere, si affaccia una manciata di stelle che sfoggiano l’autografo a sei punte (più due) di Jwst. Per Alyssa Pagan, che ne ha curato la composizione a colori, assurge subito al rango delle preferite, «non solo per la sua bellezza, ma per la pietra miliare che rappresenta», riconosce. «A quel punto, lavoravo con i dati di Webb da più di un anno e finalmente mi sentivo più a mio agio: ho sviluppato nuove tecniche e una comprensione dei dati più ricca di sfumature, che mi ha permesso di ottenere un approccio più sinergico e, penso, un’immagine di qualità superiore».
L’immagine di Rho Ophiuchi è basata su osservazioni realizzate in cinque dei filtri di NirCam tra marzo e aprile 2023, nell’ambito di un’estensione del programma Webb Ero, dedicato a immortalare corpi celesti particolarmente scenografici per continuare a condividere le meraviglie del cosmo con il pubblico anche dopo le prime release. Che siano dedicate alla divulgazione, come in questo caso, oppure alla ricerca scientifica, come nella maggior parte dei casi, ogni immagine «nasce da un processo competitivo per ottenere tempo di osservazione», nota Gennaro. «Gli scienziati di tutto il mondo scrivono proposte che vengono revisionate dai loro pari, e solo le migliori – circa una su dieci – riescono ad ottenere del tempo. Il mio lavoro consiste nel far sì che chi intende usare NirCam per la loro scienza sia in grado di scrivere una proposta dall’inizio alla fine, e che lo strumento operi come previsto nell’eseguire le osservazioni desiderate».
L’astrofisico, che nella sua ricerca si occupa di formazione stellare, si è aggiudicato una quarantina di ore per poter osservare, proprio con NirCam, le stelle più deboli in una galassia satellite della Via Lattea, chiamata Bootes I. L’obiettivo è comprendere come si formano le stelle in una galassia che è sì una nostra vicina di casa, ma è di fatto un “fossile locale” delle galassie primordiali che Jwst riesce a vedere a malapena, senza poter distinguere le stelle individualmente. «C’è tanto di più nei dati grezzi, che naturalmente lo scienziato in me guarda solo a quelli per qualunque applicazione quantitativa», non nasconde Gennaro. «Ma l’entusiasta in me si ferma sempre nei corridoi a guardare le immagini spettacolari prodotte dai nostri esperti di outreach. Credo che senza il fascino di quelle immagini non avrei lo stesso stimolo nel guardare i dati grezzi».
Questo articolo è il primo di una serie che inauguriamo oggi e che, per qualche settimana, ogni venerdì, si addentrerà nei meandri delle spettacolari immagini realizzate dal telescopio spaziale James Webb: come nascono, come vengono realizzate, e come influenzano la nostra percezione del cosmo
Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “The Jwst Early Release Observations” di Klaus M. Pontoppidan, Jaclyn Barrientes, Claire Blome, Hannah Braun, Matthew Brown, Margaret Carruthers, Dan Coe, Joseph DePasquale, Néstor Espinoza, Macarena Garcia Marin, Karl D. Gordon, Alaina Henry, Leah Hustak, Andi James, Ann Jenkins, Anton M. Koekemoer, Stephanie LaMassa, David Law, Alexandra Lockwood, Amaya Moro-Martin, Susan E. Mullally, Alyssa Pagan, Dani Player, Charles Proffitt, Christine Pulliam, Leah Ramsay, Swara Ravindranath, Neill Reid, Massimo Robberto, Elena Sabbi, Leonardo Ubeda, Michael Balogh, Kathryn Flanagan, Jonathan Gardner, Hashima Hasan, Bonnie Meinke e Antonella Nota