Una sinuosa creatura marina, dalla sagoma arcuata e i toni rosacei, che vaga nell’oscurità degli abissi oceanici, tra il verde delle alghe e il rosso fuoco dei coralli. Un feroce drago scarlatto dall’occhio ceruleo che cavalca nubi scintillanti in cerca della sua prossima preda. O forse una festosa ghirlanda tra le cui spire risplendono piccoli lumicini azzurri. Sono solo alcune possibili interpretazioni di un’immagine che, invece, ritrae quel che resta alla fine di una stella. Una stella massiccia, molto più grande del nostro Sole. Di quelle che, una volta esaurito il carburante nucleare, fanno il botto – o, più tecnicamente, la supernova – rilasciando nelle loro immediate vicinanze una quantità di energia da far impallidire un’intera galassia. Quel che resta, si diceva, è un guscio di gas interstellare che, plasmato dal poderoso impatto e arricchito chimicamente dai nuovi elementi forgiati durante l’esplosione, si ricompatta sui lunghissimi tempi scala del cosmo dando luogo a forme curiose dai colori sgargianti.
Si chiama Cassiopeia A, Cas A per gli amici, ed è uno dei resti di supernova più affascinanti dell’intera volta celeste. Ci si sono cimentati tutti i grandi telescopi, da Hubble nelle lunghezze d’onda del visibile a Spitzer nell’infrarosso, fino a Xmm-Newton e Chandra nei raggi X. Eppure così, come l’ha svelato nell’aprile del 2023 il Mid-Infrared Instrument (Miri) a bordo del telescopio spaziale James Webb (Jwst), non l’avevamo ancora mai visto.
C’è infrarosso e infrarosso
«Uno dei motivi per cui questa è la mia preferita di Webb finora è perché si tratta di un’immagine solo di Miri, ovvero basata su lunghezze d’onda della luce infrarossa più lunghe di quelle che di solito vediamo nelle spettacolari immagini di NirCam, che invece riprendono la luce del vicino infrarosso», racconta a Media Inaf Joe DePasquale, principal science visuals developer presso l’Office of Public Outreach allo Space Telescope Science Institute (Stsci) di Baltimora, tra gli artefici delle straordinarie immagini per il pubblico realizzate da Jwst. «Miri ha un campo visivo molto più piccolo rispetto a NirCam, quindi le immagini tendono ad avere una risoluzione molto più bassa, fornendoci di solito solo una piccola istantanea di una regione che potrebbe essere stata ripresa in modo più esteso con NirCam».
Questa immagine di Cas A combina le osservazioni di ben otto filtri in dotazione a Miri, la fotocamera che scruta il cosmo nel medio infrarosso. Secondo DePasquale, le immagini più eclatanti di Jwst sono quasi sempre quelle realizzate da NirCam (di cui avevamo parlato nel primo episodio di questa serie) e spesso si può avere l’impressione che Miri viva nella sua ombra. «Per questo mi ha fatto piacere vederlo “brillare” in questa occasione», aggiunge. «Il team scientifico aveva progettato un programma di osservazione ambizioso per coprire l’intero resto di supernova con un mosaico di puntamenti di Miri, rendendo possibile questa immagine straordinaria ad alta risoluzione».
Al contrario di NirCam, sviluppato interamente da un team statunitense all’Università dell’Arizona, Miri è una collaborazione tra l’Europa e gli Stati Uniti. Dei quattro strumenti di Jwst, è l’unico che si spinge nei meandri dell’infrarosso, oltre i cinque micron. Ed è proprio qui che le cose iniziano a cambiare.
«La tecnologia della fotocamera è leggermente diversa e anche i processi fisici che osserviamo sono leggermente diversi rispetto al vicino infrarosso», spiega a Media Inaf Sarah Kendrew, astrofisica dell’Agenzia spaziale europea (Esa) di stanza a Baltimora, dove guida il team di supporto scientifico dello strumento Miri a Stsci. «In generale, osservare a lunghezze d’onda maggiori significa che riceviamo più radiazione da oggetti più freddi, come le regioni in cui si formano le stelle, che quindi Miri può sondare in maniera più efficace. Inoltre, per le galassie molto distanti, a causa dell’espansione dell’universo parte della luce proveniente dalle stelle viene spinta nel medio infrarosso, quindi possiamo esplorare sempre più in profondità nella storia dell’universo».
Di nazionalità anglo-belga, cresciuta nelle Fiandre a un passo da Bruxelles, laurea e dottorato allo University College London, Kendrew lavora su Miri dal 2007, quando il lancio di Jwst era ancora previsto per lo scorso decennio. Allo Space Telescope Science Institute, insieme a un team di una ventina di persone, si occupa del buon funzionamento dello strumento e della calibrazione ottimale dei dati, ma anche di offrire supporto all’intera comunità astronomica per garantire che gli utenti possano ottenere i migliori dati possibili per la loro ricerca. «Circa una volta all’anno», ricorda, «pubblichiamo un grande documento con tutte le capacità disponibili per il prossimo anno, dando alla comunità tutti i requisiti per richiedere tempo su Jwst. Le persone devono scrivere una giustificazione scientifica molto forte per descrivere un esperimento, per esempio osservare un certo tipo di galassie o di stelle, o certi campi nel cielo per testare questa o quella teoria, e devono anche fornire una descrizione tecnica completa degli strumenti che vogliono utilizzare. Riceviamo migliaia di proposte ogni anno».
L’“altro” universo di Miri
Il lavoro di Kendrew e del suo team inizia già prima della scadenza: chiunque abbia domande su come implementare un certo programma osservativo con Miri, può contattare l’help desk e ricevere aiuto tecnico sulle capacità di Miri, per capire cosa è possibile fare con lo strumento. Le proposte vengono poi valutate dai revisori, che sono membri della comunità astronomica esperti in diversi campi, e alla fine del processo alle proposte migliori viene assegnato il tempo di osservazione sull’ambito telescopio.
«Abbiamo anche del tempo per fare ricerca, ovviamente mi piace particolarmente lavorare con i dati Miri, ma uso anche dati provenienti da altri strumenti», nota la ricercatrice. «Sono stata coinvolta da vicino in alcuni programmi che hanno esaminato esopianeti in transito davanti alla loro stella: stiamo imparando molto con Webb sulla fisica e la chimica nelle atmosfere degli esopianeti. Su questo, Miri si è dimostrato davvero capace».
Come scienziata, ama lavorare con le immagini grezze. «Dai uno sguardo speciale ai dati e capisci tutte le caratteristiche, la risposta dei diversi pixel, ogni minimo dettaglio: questo è un po’ il lavoro mio e del mio team. Ma per i miei programmi scientifici, a volte ho provato a realizzare qualche bella immagine per un articolo ed è davvero difficile», ammette. «Sono davvero felice che ci siano professionisti il cui compito è trasformare questi dati in bellissime immagini perché penso che sia estremamente importante il ruolo di queste immagini che rilasciamo regolarmente al pubblico, sia in termini di copertura mediatica ma anche per stimolare l’entusiasmo verso la scienza e la creatività, incoraggiando la gente a fare qualcosa con i dati».
La sua immagine preferita è quella dei “Pilastri della creazione”, una nebulosa nella costellazione del Serpente, la cui forma ricorda vagamente quella di tre dita di una mano, resa eterna negli anni Novanta dal decano dell’astrofisica spaziale, Hubble. Ovviamente Kendrew parla della versione di Miri. «Spesso trovo le immagini nel medio infrarosso più interessanti perché quelle nel vicino infrarosso si sovrappongono un po’ in copertura a quelle di Hubble, quindi spesso assomigliano molto a Hubble», chiarisce, «mentre il medio infrarosso, che non abbiamo mai avuto prima con una risoluzione spaziale simile, mostra proprio processi fisici diversi: si vedono molto di più il gas e la polvere».
Alla classica immagine di Hubble in luce visibile, in cui la silhouette scura dei pilastri oscurava la luce delle giovani stelle che popolano quel “vivaio cosmico”, aveva fatto seguito vent’anni dopo un’altra foto, sempre di Hubble, nel vicino infrarosso, brulicante di astri nascenti come un bosco d’altri tempi illuminato dalle lucciole. E se la versione di NirCam ha perfezionato questa vista, grazie alla risoluzione e sensibilità senza precedenti di Jwst, è quella di Miri che rivela una nuova faccia della nebulosa.
«C’è molta polvere nel mezzo interstellare», sottolinea Kendrew, «e quella polvere assorbe la luce ottica e i raggi ultravioletti, mentre gli infrarossi tendono a propagarsi più facilmente attraverso la polvere. Con Miri poi puoi vedere molto di più attraverso la polvere, e non solo: se la polvere viene riscaldata dalle stelle, emette molto intensamente nel medio infrarosso, il che significa che puoi vedere il bagliore stesso della polvere». Le piace imbattersi in panorami dell’universo mai visti prima: certo, prima di Jwst c’era il telescopio spaziale Spitzer che copriva le stesse lunghezze d’onda di Miri, «ma aveva un diametro inferiore a un metro mentre Webb ha uno specchio da sei metri e mezzo: la risoluzione spaziale scala con il diametro dello specchio principale, quindi c’è un enorme salto di risoluzione tra i due».
Anche DePasquale si diletta scoprendo nuovi dettagli di oggetti arcinoti nelle immagini di Miri. Per esempio quella di Cas A, di cui aveva prodotto numerose versioni nel suo lavoro precedente, per il telescopio spaziale Chandra. «Cas A è uno degli obiettivi preferiti dell’astronomia a raggi X», precisa l’esperto di grafica astronomica, che come uno scultore ama il momento in cui apre per la prima volta un’immagine grezza, prima di scoprire – ed estrarre – il potenziale di bellezza di quei dati. «Guardare Cas A con Miri è stato come rivedere un vecchio amico in un modo completamente nuovo dopo anni di lontananza: anche gli astronomi con cui ho lavorato su questi dati sono rimasti sorpresi dalla grande “torre verdastra” crivellata di buchi e bolle che si vede nella regione centrale dell’immagine. È sicuramente uno dei miei risultati scientifici preferiti raggiunti da Jwst finora».
Tutti i colori di Jwst
Tra i ventinove filtri nel vicino infrarosso di NirCam e i nove nel medio infrarosso di Miri, Jwst può ammirare l’universo in trentotto colori – un’abilità essenziale per studiare le proprietà fisiche e chimiche di stelle, nebulose, galassie. Ma come trasformare questa ricca tavolozza in immagini che anche i nostri occhi possano apprezzare?
«Combinare i dati NirCam e Miri può essere molto impegnativo», afferma DePasquale. A cominciare dai campi visivi dei due strumenti, che sono alquanto diversi: molto ampio quello di NirCam, più ristretto quello di Miri. Un problema che si può aggirare combinando diverse osservazioni Miri in un mosaico, oppure mostrando la vista di Miri su un’area più piccola dell’immagine.
«Un altro approccio che ha prodotto risultati meravigliosi», prosegue, «è quello che chiamiamo Nir-Miri-Cam: trattare i dati di ciascuna fotocamera come singole immagini a colori e poi combinare i risultati». In questo caso, si usa sempre l’approccio cromatico (per i dettagli, rimandiamo al primo episodio di questa serie), ma combinando le lunghezze d’onda più corte di NirCam con la più corta di Miri per creare il canale blu, e così via per i canali verde e rosso. «Questo ci consente di avere delle stelle con colori più “naturali”, poiché le stelle sono molto più brillanti nel vicino infrarosso mentre molte di loro scompaiono completamente nel medio infrarosso. Usando un metodo puramente cromatico, si ottiene un’immagine in cui molte stelle appaiono di un blu puro, il che sembra molto innaturale».
Spesso, per riferirsi a queste immagini, si parla di “falsi colori”, prendendo in prestito una terminologia che viene dalla fotografia. Storicamente, vengono definite “a colori naturali” le immagini a colori i cui filtri riproducono approssimativamente la sensitività dei coni umani – i recettori della luce nei nostri occhi, essenziali nella percezione dei colori – mentre si parla di “pseudocolori” quando non c’è una corrispondenza diretta tra i filtri scelti e i colori percepiti dall’occhio umano. Per Jwst, che osserva nell’infrarosso, la scelta è obbligata. Eppure c’è chi crede che questa scelta lessicale non sia la più adatta.
«La frase ‘immagine composita a falsi colori’ è utilizzata ampiamente in astronomia per descrivere immagini create assegnando colori a diverse lunghezze d’onda e fenomeni fisici che a volte sono invisibili all’occhio umano», commenta a Media Inaf Pedro Russo, professore di Astronomia e Società presso l’Università di Leiden, nei Paesi Bassi. «L’uso del termine ‘falso’ deriva dal fatto che i colori di queste immagini non rappresentano i colori reali degli oggetti osservati, ma piuttosto sono scelti per evidenziare caratteristiche o proprietà diverse».
Questa ambiguità sulla natura dei colori ha destato grande curiosità da parte del pubblico sin dalla release delle prime immagini a colori di Jwst nel luglio 2022. Secondo Kendrew, che tiene spesso conferenze divulgative sui nuovi risultati scientifici dell’osservatorio, l’entusiasmo della gente per le notizie e le immagini è incredibile. «Riceviamo molte domande sui colori e su come si passa dai dati grezzi alle bellissime immagini, ma anche sulla loro interpretazione: cosa vediamo in queste immagini, cosa sappiamo su ciò che sta accadendo, quanto sono lontane le cose che vediamo: il pubblico prova a contestualizzare, a immaginare, per capire davvero cosa sta guardando».
Benché non ci sia nulla di tecnicamente “falso” in queste immagini, il cui scopo è visualizzare qualcosa che l’occhio umano non può vedere – obiettivo, del resto, di qualsiasi telescopio – in un’epoca di fake news, bufale e complottismi, il vocabolario può effettivamente trarre in inganno. «In astronomia esiste una convenzione per assegnare questi colori, una grammatica per le immagini astronomiche», riflette Russo, «ma direi che abbiamo bisogno di un nome migliore per queste immagini: forse il termine ‘colore rappresentativo’, che è stato utilizzato in alcune comunità».
Non si tratta di un dibattito nuovo, in fondo. Dubbi e curiosità sui colori delle immagini astronomici pullulano il world wide web sin dall’introduzione della “Hubble palette”, la tecnica di elaborazione delle immagini sviluppata per il telescopio spaziale Hubble (di cui pure avevamo parlato nel primo episodio di questa serie). Alyssa Pagan, che insieme a DePasquale si occupa di elaborare le immagini di Jwst per il pubblico, si chiede cosa ci sia in fondo di speciale nella visione umana. «Esistono molti modi per esplorare e comprendere l’universo e i nostri occhi sono solo uno di essi, e piuttosto limitante», evidenzia Pagan. «Per esempio, sappiamo di avere uno scheletro, ma non possiamo vederlo senza l’aiuto dei raggi X; come ben sappiamo, ciò non rende le nostre ossa meno reali. Facciamo affidamento su svariate tecnologie per comprendere il nostro corpo, così come utilizziamo vari strumenti sensibili a diverse lunghezze d’onda per comprendere lo spazio. Pertanto, sostengo che queste immagini di Hubble e Webb siano in realtà una visione e una comprensione più completa del cosmo».
Quando una stella sembra proprio una stella
L’ubiquità delle immagini di Jwst nell’ecosistema mediatico digitale, la facilità di scaricare questi spettacolari ritratti dell’universo e di usarli come screensaver del nostro smartphone oppure di acquistare un poster o un capo d’abbigliamento sfolgorante di stelle all’infrarosso può a volte eclissare l’enorme sfida durata decenni, che ha coinvolto migliaia di persone in quattordici paesi per sviluppare, costruire e lanciare una macchina capace di catturare quei prodigiosi paesaggi celesti e portarli a Terra.
«Se osservi con un telescopio terrestre, puoi vederlo, è lì, puoi toccarlo», suggerisce Kendrew, «ma quando lanci qualcosa nello spazio diventa improvvisamente molto astratto perché non hai alcuna connessione fisica con esso. Poi quando ricevi i dati, quando guardi nei metadati che contengono tutte le informazioni, è sorprendente perché sì, quella foto è stata effettivamente scattata nello spazio, è stata inviata da lì».
La ricercatrice ricorda ancora il momento in cui il suo team ha ricevuto la prima immagine di Miri sul cielo, durante i sei mesi di commissioning tra il lancio e la prima release. «Lo vedevamo prima di chiunque altro, questa era davvero la prima volta che registravamo i fotoni delle stelle ma con lo strumento che avevamo costruito in tutti quegli anni», riconosce Kendrew. «Eravamo nervosi prima di queste prime immagini, qualcosa può sempre apparire in modo diverso rispetto al previsto, quindi è stato un grande traguardo ottenere i primi dati, le prime immagini e vedere che una stella appare davvero come una stella, pensando poi che l’osservatorio è nello spazio e che questi dati sono arrivati a noi da un milione e mezzo di chilometri di distanza».
Da quel punto lontano e freddo, che segue la Terra nella sua orbita intorno al sole, un raffinato congegno di metallo ed elettronica ci connette con l’universo più grande di cui facciamo parte. «La parte più emozionante di questo lavoro, oltre ad essere le prime persone al mondo a vedere come sarà l’immagine finita», confessa DePasquale, «è vedere l’impatto di queste immagini nel mondo, vedere il nostro lavoro visualizzato sugli schermi grandi quanto un edificio intero a Times Square, a Piccadilly Circus».
Ma non si tratta solo di splendide fotografie. C’è molto di più. Pedro Russo, che ha curato la mostra immersiva Jwst Universe, attualmente visitabile presso l’Osservatorio antico di Leiden, sostiene che il pubblico sia ormai “visivamente” sopraffatto da immagini, video e ogni forma di contenuto digitale. «Quello che ha funzionato davvero bene alla mostra Jwst Universe è stato l’aspetto narrativo della scienza dietro le immagini», nota Russo. «Abbiamo coinvolto scienziati e ingegneri per raccontare la loro scienza e i risultati di Jwst. Nel comunicare l’astronomia al pubblico dobbiamo aggiungere uno strato di narrazione alle immagini, in modo da poter andare oltre la bellezza, oltre l’estetica. Le immagini attirano l’attenzione, ma solo le storie ottengono un coinvolgimento più profondo».
Sono le oltre milleseicento pubblicazioni scientifiche basate sui dati di Jwst, con tanto di molecole “che sanno di casa” scovate nelle atmosfere di esopianeti e buchi neri che non si sa come hanno fatto a recuperare tutta quella massa, che lo hanno già elevato, a due anni e mezzo dal lancio, al rango di leggenda. Certo, le centinaia di immagini regalate al pubblico di tutto il mondo hanno contribuito all’aura di sublime che ammanta la missione. «Rifletto molto sulla me del passato che si considerava una girovaga», conclude Pagan, «ma come in molte cose, nella vita e anche in astronomia, a volte devi solo fare un passo indietro e vedere il contesto più ampio, e tutto ritrova un senso».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astronomical Journal l’articolo “Image-Processing Techniques for the Creation of Presentation-Quality Astronomical Images” di Travis A. Rector, Zoltan G. Levay, Lisa M. Frattare, Jayanne English, and Kirk Pu’uohau-Pummill
- Segui lo speciale di Media Inaf dedicato a Jwst in technicolor
Correzione del 22.07.2024: l’immagine di Cas A combina otto dei nove filtri in dotazione a Miri, e non sei come erroneamente indicato in una precedente versione.