SPECIALE JWST IN TECHNICOLOR

Prospettive cosmiche tra le sfumature di Jwst

Nel quarto e ultimo appuntamento di questo viaggio alla scoperta delle evocative immagini del telescopio spaziale James Webb, cerchiamo di capire perché queste “istantanee” dell'universo ci appaiono così diverse da quelle che hanno reso celebre il loro predecessore, il glorioso Hubble, e come questi panorami cosmici possano contribuire alla consapevolezza pubblica sui cambiamenti climatici

     09/08/2024

Melanie King, Ancient Light, Grizedale, UK, Silver Gelatin Photograph, 2017

Da Ramsgate, cittadina sulla costa sud-orientale dell’Inghilterra, dove risiede, alle Highland scozzesi, dall’Andalusia al Pakistan fino ad Atina, provincia di Frosinone, Melanie King è alla ricerca della luce. Non la luce diurna, che il Sole ci regala ogni giorno, inondando i nostri paesaggi di fotoni “freschi” di appena otto minuti. King cerca la luce antica, partita centinaia, migliaia di anni fa da astri lontani. Per catturarla, su pellicola analogica, visita luoghi con cieli scuri, vagando nel buio e creando lunghe esposizioni fotografiche, dalla durata variabile tra trenta secondi e cinque minuti.

A caccia di luce antica

Niente computer, lo smartphone spento il più possibile per non compromettere l’adattamento degli occhi al buio e mantenere la vista vigile e acuta. «Così posso guardare il cosmo per tutto il tempo dell’esposizione», racconta a Media Inaf l’artista e docente di fotografia alla Canterbury Christ Church University, nel Regno Unito. «Questi momenti mi danno un’opportunità inestimabile: esaminare il cielo notturno, cercando le mie costellazioni, le mie stelle e i miei pianeti preferiti».

Melanie King, artista e docente di fotografia alla Canterbury Christ Church University. Crediti: Look Mum No Computer

Alla prima parte contemplativa in esterno, fa seguito il lavoro in camera oscura. Qui King, che con il suo progetto Ancient light ha recentemente conseguito un dottorato di ricerca presso il Royal College of Art di Londra, entra direttamente in contatto con il materiale fotografico toccato dai fotoni provenienti dalle stelle. «La mia esperienza nella camera oscura è molto simile a quella in un paesaggio stellato», prosegue. «Mi affido al tatto e alla memoria per avvolgere una pellicola in completa oscurità, devo stare lontana dalla luce bianca brillante. Sia sul campo sia all’interno della camera oscura, mi concentro esclusivamente sul processo in corso con distrazioni minime». Lo sviluppo della pellicola può richiedere mezz’ora, altrettanto occorre poi per completare le stampe dall’esposizione alla fase di lavaggio. Consapevole della rarità di metalli come l’argento, usato tradizionalmente nei processi di stampa fotografica, nonché dell’impatto ambientale della loro estrazione, King è passata a processi fotografici sostenibili, utilizzando erbe, alghe e caffenolo – una soluzione a base di carbonato di sodio, fenoli e vitamina C. «Poiché sono più lenti delle loro controparti più pericolose, i tempi di sviluppo possono allungarsi ancora di più».

Quella di King è un’esplorazione del cosmo lenta, che mette al centro il corpo, i sensi. «Gran parte della mia ricerca considera come l’esperienza di un cielo pieno di stelle possa alterare la mia percezione», spiega. «Per esempio, sono più consapevole degli odori e dei suoni, pondero i miei movimenti. Sono in grado di consentire alla luce delle stelle di viaggiare direttamente nella mia retina». Questa esperienza “incarnata” dell’oscurità l’ha aiutata a riflettere su come il cosmo sia intimamente e materialmente legato agli ecosistemi presenti sulla Terra. «Questo mi ha motivato a migliorare la sostenibilità in tutti gli ambiti della mia vita, inclusa la pratica artistica. L’inquinamento luminoso negli ambienti urbani può oscurare la nostra visione del cosmo e le nostre menti possono essere distratte da dispositivi molto luminosi, il che può isolarci dal mondo naturale e dalla nostra visione dell’universo».

Hubble Ultra Deep Field. Crediti: Nasa, Esa, and S. Beckwith (Stsci) and the Hudf Team

Secondo l’artista, se si ha la possibilità di osservare il firmamento da località con cieli scuri, a occhio nudo o attraverso l’oculare di un telescopio, l’esperienza può avere un profondo effetto sul nostro senso di connessione con l’universo. Ma per contemplare la luce più antica, quella che ha viaggiato milioni o addirittura miliardi di anno attraverso la trama del cosmo, la scelta è obbligata. Bisogna volgere lo sguardo allo schermo – del computer, tablet o smartphone – per sfogliare gli archivi dei più potenti osservatori che popolano regioni remote del nostro pianeta fino agli avamposti spaziali, come Hubble space telescope (Hst) e il James Webb Space Telescope (Jwst), i cui scatti immortalano sorgenti così lontane che nessun occhio umano potrà mai vedere.

«Hubble e Jwst ci hanno permesso di scrutare il cosmo più a fondo che mai», constata King. L’Ultra Deep Field, immagine iconica pubblicata nel 2004, è stata realizzata combinando numerose esposizioni di una porzione apparentemente vuota del cielo notturno, per un totale di oltre duecentosettanta ore, pari a undici giorni di osservazioni dell’allora avveniristico Hubble. «Il risultato è una fotografia di circa diecimila galassie mai viste prima, che ha dimostrato la complessità e la vasta portata del cosmo», aggiunge l’artista, che è affascinata dai processi attraverso cui vengono create le immagini astronomiche. «Tali immagini ci consentono anche di concepire quanto sia piccola la frazione di spazio che occupa la Terra. Se comprendiamo quanto sia rara la Terra, questa sensazione può anche aiutarci ad apprezzare le diverse forme di vita e gli ecosistemi che esistono sul nostro pianeta».

Dietro le quinte, da Hubble a Jwst

Melanie King non disdegna le immagini create per il pubblico, anche se le reputa un po’ troppo patinate, nella loro quasi-perfezione, e preferisce ammirare i dati grezzi. «Trovo molto interessante vedere le scie dei raggi cosmici che interagiscono con il sensore», ammette. «È una traccia tangibile e materiale, rende il cosmo e le stelle più vicini». Nel 2017, nell’ambito della sua ricerca, King ha intervistato Zolt Levay, storico esperto di immagini astronomiche che, insieme al suo team allo Space Science Telescope (Stsci) di Baltimora, ha messo a punto la tecnica di elaborazione grafica usata sia per le immagini Hubble sia per quelle di Jwst. L’obiettivo era analizzare la genesi di un altro grande classico: i “Pilastri della Creazione”, tra i primi capolavori sfornati dal telescopio spaziale Hubble (che abbiamo già incontrato nel primo e nel secondo episodio di questa serie).

L’opera Pillars Of Creation, Lenticular Print (2017) di Melanie King, esposta alla mostra ‘To The Edge Of Time’ presso la KU Leuven Gallery, Belgio, 2021

«Ho chiesto a Zolt Levay di descrivere l’esperienza di produzione dell’immagine», ricorda King. «L’immagine grezza era in bianco e nero e costellata di tracce di raggi cosmici. Levay ha utilizzato tecniche sofisticate di elaborazione delle immagini per rimuovere artefatti, evidenziare il contrasto e aggiungere i colori». A valle dello scambio, l’artista realizza una stampa della leggendaria nebulosa. Non una stampa qualsiasi: per affiancare i dati grezzi all’immagine elaborata per il pubblico da Levay e colleghi, sceglie la tecnica della stampa lenticolare. Quella usata in alcune cartoline dove si alternano due immagini, per intenderci: a seconda dell’inclinazione, ne vediamo una anziché un’altra.

«A livello estetico, le immagini grezze sono bellissime, quindi penso che il pubblico sarebbe interessato a vederle per questo motivo», commenta. Del resto, tutti i dati sono accessibili a chiunque, da qualsiasi parte del mondo, attraverso gli archivi online delle agenzie che gestiscono questi osservatori spaziali, e non mancano i citizen scientist che vi si tuffano per dilettarsi con l’elaborazione di immagini tutte loro (ne abbiamo parlato nel terzo episodio di questa serie). «Penso che alle persone piaccia sapere come vengono fatte le cose, quindi sarebbe affascinante per un astronomo o un esperto di elaborazione delle immagini discutere dei loro processi».

Il metodo che porta alla creazione di immagini divulgative a partire dai dati astronomici, perfezionato a Stsci sulle osservazioni di Hubble, è rimasto sostanzialmente invariato ora che all’ormai trentaquattrenne telescopio spaziale si è aggiunto il tanto atteso successore. «L’aspetto visivo delle immagini Jwst è in gran parte guidato dai dati», sottolinea Joe DePasquale, principal science visuals developer presso l’Office of Public Outreach di Stsci, che insieme ad Alyssa Pagan si occupa di trasformare i dati grezzi dei due grandi telescopi spaziali nelle spettacolari immagini che il pubblico può ammirare in rete. «Utilizziamo quasi lo stesso identico approccio che usiamo con Hst all’elaborazione dei dati di Jwst. Ci sono alcune idiosincrasie tipiche di ciascun osservatorio con cui dobbiamo confrontarci, per lo più legate all’andamento del “rumore” che vediamo sullo sfondo, ma anche al trattamento delle stelle luminose e dei loro picchi di diffrazione. Il trattamento di questi artefatti delle immagini è unico per ogni osservatorio, ma il processo complessivo è molto simile».

Alyssa Pagan e Joe DePasquale, esperti di visualizzazione dei dati astronomici allo Space Telescope Science Institute di Baltimora

Come abbiamo già raccontato nei precedenti episodi di questa serie, con l’aiuto di Pagan e DePasquale, gli scintillanti colori delle immagini vengono assegnati tramite un metodo chiamato “ordinamento cromatico”, che mette in relazione i colori alle lunghezze d’onda dei dati a disposizione. «Sia che vengano osservati con Hst o Jwst, i dati delle immagini vengono solitamente presi attraverso diversi filtri per isolare diverse lunghezze d’onda della luce: a volte si tratta di fasce ampie di luce, a volte di regioni molto strette dello spettro», chiarisce DePasquale. «Assegniamo il colore in modo che le lunghezze d’onda più lunghe corrispondano al rosso e, man mano che ci spostiamo verso lunghezze d’onda sempre più corte, utilizziamo assegnazioni di colore verde e blu. La piena ricchezza di colore che vediamo in queste immagini si ottiene fondendo insieme diverse immagini che sono state colorate cromaticamente».

Una questione di prospettiva

Per chi ha fatto scorpacciata di immagini firmate Hubble sin dagli anni Novanta del secolo scorso, il cosmo fotografato da Jwst ha un aspetto nettamente diverso. Ma la differenza principale è da ricercarsi nelle lunghezze d’onda della luce che osservano. «Jwst guarda principalmente all’infrarosso e gli oggetti sembrano parecchio diversi nell’infrarosso rispetto all’ottico: questo è il motivo principale per cui le immagini Hst e Jwst sembrano diverse», nota Travis Rector, professore al Dipartimento di fisica e astronomia della University of Alaska Anchorage, esperto di elaborazione di immagini astronomiche e co-autore del libro Coloring the Universe – An Insider’s Look at Making Spectacular Images of Space. «Un malinteso comune è che esista una “tavolozza di Hubble”. Le tecniche di elaborazione utilizzate per creare immagini da questi due telescopi, così come da altri osservatori, sono in gran parte le stesse. Detto questo, è necessaria una competenza straordinaria per creare immagini di livello così alto come quelle di Jwst. A Joe DePasquale e al suo team va il merito di aver creato immagini davvero spettacolari».

Dettaglio della nebulosa della Carena, osservata con Hubble (a sinistra) e con Jwst (a destra). Crediti: Crediti: Nasa, Esa, and The Hubble Heritage Team; Nasa, Esa, Csa, Stsci

Rector, che si occupa di formazione stellare e di quasar, lavora principalmente con la Dark Energy Camera, una fotocamera a grande campo sul telescopio da quattro metri Víctor M. Blanco presso l’Osservatorio interamericano di Cerro Tololo, in Cile. «Ogni telescopio», precisa, «può essere considerato uno strumento in una cassetta degli attrezzi e tu scegli quello più adatto alla ricerca che stai conducendo». Fa anche parte del team che crea immagini utilizzando i telescopi del centro di ricerca statunitense NoirLab. Se le immagini di Jwst hanno riscosso così tanto successo, sostiene l’astrofisico, è perché «ci hanno mostrato oggetti familiari, come i famosi “Pilastri della creazione”, da una nuova prospettiva. Ricordiamo le immagini originali e questo ci fornisce un punto di vista su ciò che rende diverse le immagini Jwst. È come se le nostre menti dicessero: “L’ho già visto prima, ma mai così”».

Concorda anche King, ammaliata da un’immagine che Jwst ha realizzato nel 2022, osservando la stessa porzione di cielo ripresa diciotto anni prima dal suo predecessore nel celebre Ultra Deep Field. Se Hubble aveva impiegato una settimana e mezzo per confezionare questo panorama del cosmo profondo, a Jwst sono bastate appena venti ore. Nemmeno un giorno. «Per me, questa immagine incarna l’importanza di Jwst, in quanto è in grado di sondare più lontano dei precedenti telescopi e su diverse lunghezze d’onda per scoprire i fenomeni cosmici».

A destra, l’Ultra Deep Field osservato da Hubble tra il 2003 e il 2004, per un totale di oltre 11 giorni di esposizione. A destra, una porzione dello stesso campo, osservata con Jwst nel 2022 per un totale di circa 20 ore. Crediti: Nasa, Esa, Csa, J. DePasquale (Stsci); CC BY 4.0

In un’epoca di collasso climatico, in cui ogni anno è ormai il più caldo mai registrato e le temperature record, effetto insieme ad altri eventi meteorologici estremi del riscaldamento globale guidato dalle attività umane, non sorprendono più ma non smettono di preoccupare, immagini come quelle degli Ultra Deep Field forniscono una prospettiva più vasta. «La nostra stella è solo una nella nostra galassia, e la nostra galassia è solo una tra miliardi» riconosce l’artista. «Per quanto ne sappiamo, la Terra è l’unico pianeta che ospita forme di vita complesse e siamo a rischio di autoannientamento».

Travis Rector, professore al Dipartimento di fisica e astronomia della University of Alaska Anchorage

Secondo Rector, che vivendo in uno stato come l’Alaska sperimenta quotidianamente le conseguenze del riscaldamento globale, in quanto l’Artico si sta scaldando a velocità doppia rispetto al resto del mondo, gli astronomi hanno una prospettiva unica e importante sul problema del cambiamento climatico. Per questo è attivo nella divulgazione su questi temi ed è tra i fondatori del gruppo internazionale Astronomers for Planet Earth. «C’è una notevole sovrapposizione nella fisica dell’astronomia e della climatologia, e in questo modo possiamo aiutare le persone a comprendere il problema» osserva. Ma è soprattutto la consapevolezza di quanto piccola e unica sia la Terra, e del fatto che sia davvero l’unico posto in cui l’umanità possa vivere, che mette la comunità astronomica in una posizione d’eccezione. «La frase “Non esiste un Pianeta B”, diventata un grido di battaglia del movimento per il cambiamento climatico, è a tutti gli effetti una dichiarazione astronomica», ribadisce Rector. «Le immagini che facciamo dell’Universo spesso ispirano soggezione e umiltà, il che può aiutare le persone a sviluppare la nostra prospettiva».

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