I brillamenti stellari consistono in un’intensa emissione localizzata di radiazione elettromagnetica nell’atmosfera di una stella: si tratta di eventi analoghi a quelli che avvengono nel Sole. Nella nostra stella i brillamenti sono causati dal rilascio improvviso dell’energia accumulata nei campi magnetici fotosferici tramite eventi di riconnessione magnetica. Più in dettaglio, sappiamo che la fotosfera solare è attraversata da campi magnetici che si muovono e cambiano di intensità nel tempo. Il plasma solare e i campi magnetici sono accoppiati insieme e uno degli effetti è la presenza delle macchie solari, che sono regioni più fredde della fotosfera circostante.
Nella zona delle macchie, il campo magnetico ostacola i moti convettivi che trasportano il calore dall’interno alla superficie del Sole, e quando il trasferimento di calore è meno efficiente il plasma in superficie si raffredda: è questa la causa alla base della formazione dei gruppi di macchie solari. Un altro effetto di questo accoppiamento fra campi magnetici e plasma può essere un brillamento solare: se il campo magnetico che permea la macchia si riorganizza in una configurazione a energia inferiore, l’energia in eccesso che prima era immagazzinata nel campo magnetico viene trasferita al plasma che si trova all’interno e attorno al campo magnetico. Quando ciò accade, il plasma solare viene rapidamente riscaldato e può essere accelerato a velocità relativistiche. Il plasma surriscaldato emette radiazione ultravioletta (Uv) e persino raggi X, producendo un flare (o brillamento), ossia un’intensa emissione breve e localizzata nel tempo e nello spazio di radiazione elettromagnetica.
Considerato che sono le correnti elettriche presenti nel plasma stellare che generano i campi magnetici, i brillamenti sono osservati più frequentemente in stelle con una massa inferiore a 1,5 volte quella del Sole, perché sono queste le stelle che possiedono estese zone convettive superficiali sedi di correnti elettriche: vale la regola che minore è la massa della stella e maggiore è la zona convettiva, di conseguenza più intensi sono i flare generati dalla dinamo stellare. I brillamenti sulle deboli nane rosse di tipo spettrale M sono di particolare interesse a causa dell’elevata attività magnetica di queste stelle, inoltre sono candidate ideali per la rilevazione di esopianeti nella loro zona di abitabilità. Un esempio di questo tipo di stelle è Proxima Centauri, a soli 4 anni luce da noi. Chiaramente, considerato che la zona di abitabilità di una nana rossa è molto vicino alla stella, l’emissione Uv dei brillamenti influisce sull’abitabilità degli eventuali esopianeti in orbita attorno alla stella. Infatti, le energie dei brillamenti caratterizzano sia le “zone di abiogenesi” attorno alla stella, in cui ci possono essere abbastanza fotoni Uv per guidare la chimica prebiotica, sia le “zone di impoverimento dell’ozono”, in cui si ha la distruzione della colonna di ozono nelle atmosfere degli esopianeti abitabili, con conseguente impossibilità per la vita di propagarsi nelle terre emerse.
Solo i brillamenti con emissioni di energia superiori a 1034 erg, i così detti superflare, possono contribuire a entrambi gli effetti quindi, se la frequenza dei brillamenti è sufficientemente elevata, non è chiaro se questi eventi aiutino o ostacolino lo sviluppo delle molecole complesse necessarie per la vita.
Studi recenti hanno trovato poche stelle che mostrano tassi di superflare (E > 1033 erg) sufficienti a influenzare l’abitabilità degli esopianeti. Tuttavia, le osservazioni sui flare stellari sono state condotte principalmente alle lunghezze d’onda ottiche, che possono comprendere solo una piccola frazione dell’emissione totale di un flare. L’emissione nell’Uv vicino di un flare può derivare dalla cromosfera e dalla fotosfera superiore, mentre l’emissione nell’Uv lontano deriva solo dalla cromosfera superiore e può corrispondere alla fase impulsiva di riscaldamento e compressione del plasma. Quindi studiare i flare nell’ottico non è il modo migliore per decidere che influenza possano avere nell’evoluzione della vita sugli esopianeti attorno alle nane rosse.
Un metodo diretto per studiare l’impatto dei flare sull’abitabilità è la fotometria Uv delle stelle durante i flare. Sotto questo punto di vista, i dati raccolti dal telescopio spaziale della Nasa Galex (Galaxy Evolution Explorer) offrono un’opportunità unica per studiare l’emissione Uv dei flare stellari, perché il satellite ha osservato simultaneamente gran parte del cielo nelle bande dell’Uv lontano (135-175 nm) e dell’Uv vicino (175-275 nm) dal 2003 al 2013. Utilizzando il catalogo di Galex e analizzando un campione di 182 flare verificatisi su 158 stelle che si trovano entro 100 parsec dal Sole è stato trovato che, contrariamente alle aspettative, c’è un eccesso di emissione nell’Uv lontano per tutti i tipi di flare, non solo per i superflare. I risultati dell’analisi mettono quindi in discussione i modelli esistenti sui brillamenti stellari e l’abitabilità degli esopianeti, dimostrando che l’emissione nell’Uv lontano è in media tre volte più intensa di quanto si ritenga normalmente e può raggiungere livelli di energia fino a dodici volte superiori a quelli previsti. Per fare un esempio, una variazione di un fattore tre nell’emissione Uv è la stessa che si ha in estate passando da Oslo, in Norvegia, a Porto Sudan, dove la pelle non protetta può scottarsi in meno di dieci minuti.
La causa esatta di questa intensa emissione nell’Uv lontano rimane poco chiara, evidentemente la radiazione emessa dai flare non è uno spettro continuo con temperatura di corpo nero di 9mila-10mila K come viene considerato nei modelli standard di abitabilità, bensì uno spettro a emissione, con la radiazione emessa a lunghezze d’onda specifiche, indicando così la presenza di atomi come carbonio e azoto. Che conseguenze ha questa scoperta per quanto riguarda l’abitabilità degli esopianeti attorno alle stelle a flare? In un campione di 1228 stelle osservate dalla missione Tess della Nasa, che ricerca pianeti extrasolari con il metodo del transito, è stato scoperto – applicando il modello standard del flare – che l’otto per cento delle sorgenti mostra dei tassi di flare con energie sufficienti per rientrare nella zona di impoverimento dell’ozono e solo l’un per cento rientra nella zona di abiogenesi. Se, invece, questi brillamenti fossero rappresentati da un corpo nero con una temperatura di 13500 K, che ha un’emissione nel lontano Uv più intensa rispetto al modello standard a 10mila K, il numero di stelle a flare che rientrerebbero nella zona di esaurimento dell’ozono aumenterebbe del 60 per cento. Chiaramente questo renderebbe più esiguo il numero di esopianeti appartenenti a stelle a flare in grado di ospitare la vita così come la conosciamo.
Per capire come stanno effettivamente le cose saranno necessari ulteriori dati sui flare stellari a diverse lunghezze d’onda che saranno ripresi usando i prossimi telescopi spaziali specializzati nell’Uv.
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Stellar flares are far-ultraviolet luminous”, di Vera L Berger, Jason T Hinkle, Michael A Tucker, Benjamin J Shappee, Jennifer L van Saders, Daniel Huber, Jeffrey W Reep, Xudong Sun e Kai E Yang