I pianeti sono corpi che orbitano intorno a una stella (vagabondi a parte), con una massa gravitazionale tale da conferire loro una forma approssimativamente sferica e che, a loro volta, esercitano una forza gravitazionale su oggetti più piccoli, come asteroidi e lune. Per la maggior parte della storia dell’umanità, gli unici pianeti che i nostri antenati conoscevano erano quelli che potevano vedere nel cielo notturno. Negli ultimi 30 anni, però, sono stati sviluppati telescopi abbastanza sensibili da poter dedurre la presenza di esopianeti, ossia pianeti al di fuori del Sistema solare.
Gli esopianeti sono, ovviamente, molto più difficili da osservare direttamente rispetto alle stelle e alle galassie. Quasi tutte le scoperte di esopianeti, in particolare a partire dal 2010, si sono basate su misure fotometriche (la quantità di luce ricevuta) delle stelle ospiti, piuttosto che dei pianeti stessi. Si tratta del cosiddetto metodo del transito. Ora, con l’aiuto del telescopio spaziale Spitzer, che ha effettuato il primo rilevamento di esopianeti nel 2005, del telescopio spaziale Kepler/KW, progettato specificamente per la ricerca di esopianeti, e del telescopio spaziale James Webb, lanciato nel 2021, il metodo del transito e altre tecniche hanno confermato l’esistenza di oltre 5mila esopianeti che abitano migliaia di sistemi stellari.
«Quando avevamo solo il nostro sistema solare da analizzare, si poteva semplicemente supporre che i pianeti si fossero formati nei luoghi in cui li troviamo oggi», dice Gabriele Pichierri, ricercatore associato al Caltech. «Tuttavia, quando nel 1995 abbiamo scoperto il primo esopianeta, abbiamo dovuto riconsiderare questa ipotesi. Stiamo sviluppando modelli migliori per capire come si formano i pianeti e come vengono a trovarsi negli orientamenti in cui sono».
La maggior parte degli esopianeti si forma dal disco di gas e polvere attorno a stelle appena formate e si prevede che migri avvicinandosi al confine interno di questo disco. In questo modo si formano sistemi planetari molto più vicini alla stella ospite rispetto al Sistema solare.
In assenza di altri fattori, i pianeti tendono a distanziarsi l’uno dall’altro a distanze caratteristiche che dipendono dalle loro masse e dalle forze gravitazionali tra i pianeti e la loro stella ospite. «Questo è il processo di migrazione standard», spiega Pichierri. «Le posizioni dei pianeti formano risonanze tra i loro periodi orbitali. Se si prende il periodo orbitale di un pianeta e lo si divide per il periodo orbitale del pianeta vicino, si ottiene un rapporto di numeri interi semplici, come 3:2». Quindi, ad esempio, se un pianeta impiega due giorni per orbitare intorno alla sua stella, il pianeta successivo, più lontano, ne impiegherà tre. Se anche il secondo pianeta e un terzo più lontano sono in risonanza 3:2, il periodo orbitale del terzo pianeta sarà di 4,5 giorni.
Il sistema planetario di Trappist-1, che ospita sette pianeti e si trova a circa 40 anni luce dalla Terra, è speciale per diverse ragioni. «I pianeti esterni si comportano correttamente, per così dire, con le risonanze più semplici che ci si aspetta», dice Pichierri. «Ma quelli interni hanno risonanze un po’ più piccanti». Ad esempio, il rapporto tra le orbite dei pianeti b e c è di 8:5, mentre quello tra c e d è di 5:3. «Questa piccola discrepanza nel risultato della formazione di Trappist-1 è sconcertante e rappresenta un’ottima opportunità per capire nel dettaglio quali altri processi sono entrati in gioco nel suo assemblaggio», afferma.
«Inoltre, si pensa che la maggior parte dei sistemi planetari sia nata in questi stati di risonanza, ma abbia incontrato instabilità significative nel corso della propria vita prima di essere osservata oggi», spiega Pichierri. «La maggior parte dei pianeti diventa instabile o si scontra l’uno con l’altro, e tutto viene rimescolato. Il nostro sistema solare, ad esempio, è stato colpito da una simile instabilità. Ma conosciamo alcuni sistemi che sono rimasti stabili, che sono più o meno esemplari immacolati. Essi, in effetti, mostrano un record della loro intera storia dinamica che possiamo poi tentare di ricostruire. Trappist-1 è uno di questi».
La sfida è stata quindi quella di sviluppare un modello che potesse spiegare le orbite dei pianeti di Trappist-1 e come hanno raggiunto la loro configurazione attuale.
Il modello a cui sono giunti i ricercatori suggerisce che i quattro pianeti interni si sono inizialmente evoluti da soli nella catena di risonanza 3:2 prevista. Solo quando il confine interno del disco si è espanso verso l’esterno, le loro orbite si sono rilassate, rompendo il rapporto 3:2 nella configurazione che osserviamo oggi. Il quarto pianeta, che originariamente si trovava sul confine interno del disco, spostandosi più in là insieme a esso, è stato poi spinto verso l’interno quando altri tre pianeti esterni si sono uniti al sistema planetario in una fase successiva.
«Osservando Trappist-1, siamo riusciti a verificare nuove ipotesi sull’evoluzione dei sistemi planetari», conclude Pichierri. «Trappist-1 è molto interessante perché è molto intricato; è una lunga catena planetaria. Ed è un ottimo esempio per testare teorie alternative sulla formazione dei sistemi planetari».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Forming the Trappist-1 system in two steps during the recession of the disc inner edge” di Gabriele Pichierri, Alessandro Morbidelli, Konstantin Batygin & Ramon Brasser
Guarda il video del Caltech sulle orbite del sistema planetario di Trappist-1: