STUDIO PUBBLICATO SU THE ASTROPHYSICAL JOURNAL

Quanto è buio lo spazio?

Dal suo punto di vista privilegiato ai confini del Sistema solare, la sonda New Horizons è riuscita a dimostrare che a emettere luce visibile, nell’universo, sono praticamente solo le galassie. Al di fuori di esse, ai nostri occhi è buio vero

     05/09/2024

Illustrazione artistica della sonda New Horizons della Nasa nello spazio profondo. A oltre 7,3 miliardi di chilometri dalla Terra, la sonda sta attraversando una regione del Sistema solare abbastanza lontana dal Sole da offrire i cieli più bui disponibili per qualsiasi telescopio esistente, e da fornire un punto di osservazione unico da cui misurare la luminosità complessiva dell’universo lontano. Sullo sfondo il disco della Via Lattea. Crediti: Nasa, Apl, Swri, Serge Brunier (Eso), Marc Postman (Stsci), Dan Durda

Lo spazio profondo? Nero, lo sanno tutti. Sì, ma quanto? Da sempre gli astronomi cercano di misurare l’oscurità dello spazio interstellare, del “vuoto” cosmico, se così si può impropriamente chiamare, dato che vuoto non è. Per capire, più che altro, quali siano le sorgenti che contribuiscono a creare quel fondo di luce che, alle varie lunghezze d’onda, permea lo spazio.

Ci hanno provato alle lunghezze d’onda della luce visibile anche con la sonda New Horizons della Nasa, che si trova ora a più di 7,3 miliardi di chilometri dalla Terra: abbastanza lontano da non subire la contaminazione della luce dovuta al bagliore del Sole e della polvere nel Sistema solare. Il risultato, pubblicato su The Astrophysical Journal, mostra che la maggior parte della luce visibile che riceviamo dall’universo è stata generata nelle galassie, e che non vi sono altre sorgenti significative di luce attualmente non note agli astronomi.

In gergo – lo accennavamo prima – si parla del cosiddetto “fondo di luce visibile”, ovvero il livello di illuminazione minimo e costante dello spazio profondo a lunghezze d’onda visibili, sotto il quale non è possibile scendere proprio in virtù dell’esistenza delle strutture luminose che popolano e illuminano l’universo. Misurarlo è importante perché consente di stabilire una sorta di tara, e di sapere qualcosa di più su quante e quali sorgenti emettano in una determinata lunghezza d’onda.

Chiaramente, magari ci avrete già pensato, lo stesso ragionamento si può estendere a lunghezze d’onda non ottiche. Anzi, ad onor del vero, la prima definizione di un fondo cosmico di radiazione non riguarda le lunghezze d’onda dell’ottico, bensì le microonde, e risale alla celebre scoperta casuale della radiazione di fondo cosmico – il cosiddetto eco del Big Bang, o Cosmic Microwave Background, Cmb – di Arno Penzias e Robert Wilson negli anni Sessanta. In seguito, gli astronomi hanno trovato prove dell’esistenza anche di un fondo di raggi X, di raggi gamma e di radiazioni infrarosse.

Il rilevamento del fondo di luce visibile – più formalmente chiamato fondo ottico cosmico, o Cob (Cosmic Optical Background) – era quindi una naturale conseguenza. Un compito molto difficile, però, perché le fonti che inquinano la vista a queste lunghezze d’onda sono numerose e difficili da eliminare. Soprattutto se si osserva dalla Terra o dal Sistema solare interno. Le osservazioni dei telescopi Hubble e James Webb si sono rivelate importanti per misurare il Cob a partire dalla somma della luce emessa da tutte le galassie visibili, fino alle più deboli e lontane, un passaggio fondamentale per cercare di capire se la luce che vediamo sia in parte attribuibile anche a sorgenti diverse e sconosciute.

«Si è cercato più volte di misurarla direttamente, ma dalla nostra prospettiva del Sistema solare c’è troppa luce solare e polvere interplanetaria che disperde la luce, e queste creano una sorta di nebbia che oscura la debole luce dell’universo lontano», spiega Tod Lauer, co-investigator di New Horizons, astronomo al National Science Foundation NoirLab di Tucson, in Arizona, e co-autore dell’articolo. «Tutti i tentativi di misurare la forza del Cob dall’interno del Sistema solare soffrono di grandi incertezze».

La scorsa estate, New Horizons ha usato lo strumento Lorri (il Long Range Reconnaissance Imager), per raccogliere due dozzine di campi di immagini separati mentre il corpo principale della navicella fungeva da schermo per il Sole. I campi osservati sono stati selezionati in modo che fossero lontani dal disco luminoso e dal nucleo della Via Lattea e lontani anche dalle stelle luminose vicine. Dopo aver tenuto conto di tutte le fonti di luce conosciute, come le stelle di fondo e la luce diffusa da sottili nubi di polvere all’interno della Via Lattea, i ricercatori hanno constatato che il livello rimanente di luce visibile era del tutto coerente con l’intensità della luce generata da tutte le galassie negli ultimi 12,6 miliardi di anni. In altre parole, il Cob è completamente dovuto alle galassie. Al di fuori di esse, troviamo il buio e nient’altro.

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