RISULTATI OTTENUTI CON SWIFT E GALEX

La rivincita delle stelle M

Un team di ricercatori dell’Inaf, dell’Università dell’Insubria e dell’Infn ha dimostrato che anche le stelle di tipo M, le più fredde e meno luminose della nostra galassia, hanno avuto una luminosità ultravioletta sufficiente a innescare i processi che portano alla formazione dei mattoni fondamentali della vita. Con le spiegazioni del primo autore, Riccardo Spinelli dell'Inaf di Palermo

     10/09/2024

Rappresentazione artistica di un pianeta potenzialmente abitabile orbitante attorno a una stella M. Crediti: Eso/M. Kornmesser

La ricerca esoplanetaria si è evoluta tantissimo negli ultimi trent’anni, tanto che oggi non si cerca più soltanto di individuare nuovi pianeti, ma anche di caratterizzare quelli che conosciamo già, studiando la storia evolutiva della loro stella e analizzando più a fondo l’ambiente circumstellare in cui si muovono. Si scopre così che anche alcune stelle generalmente considerate non adatte a originare la vita come la conosciamo, potrebbero esserlo state in passato, quando erano più giovani. È quanto accade alle stelle di tipo M, secondo uno studio pubblicato in agosto su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society e guidato da Riccardo Spinelli dell’Inaf di Palermo, in collaborazione con l’Inaf di Brera (Merate), l’Università dell’Insubria e l’Infn sezione Milano-Bicocca. Un risultato che suona come una rivincita per questa classe di stelle, che costituiscono ben il 75 per cento delle stelle nella nostra galassia, e che sono state spesso considerate ben poco ospitali per i pianeti che le accompagnano.

In una prima e lunga fase, cercare condizioni di abitabilità attorno a stelle diverse dal Sole coincideva con l’individuazione di pianeti in orbita all’interno della cosiddetta zona abitabile, una regione attorno alla stella all’interno della quale un pianeta potrebbe avere una temperatura adatta alla presenza di acqua liquida sulla sua superficie, elemento considerato fondamentale per la vita che osserviamo intorno a noi. Qualunque pianeta venisse scoperto orbitare attorno a una stella in questa zona veniva quindi classificato come “potenzialmente abitabile”. Dal punto di vista osservativo, cercare pianeti in queste condizioni si è rivelato particolarmente promettente attorno a stelle di tipo M, un po’ più piccole e più fredde del Sole, con un’età superiore a tre miliardi di anni.

Ma l’abitabilità di un pianeta dipende anche da tanti altri fattori, come la presenza e la composizione della sua atmosfera, la sua attività geologica e persino l’emissione ultravioletta che riceve della stella madre.

«L’effetto della radiazione ultravioletta può essere sia positivo che negativo per la vita come la conosciamo», spiega a Media Inaf  Riccardo Spinelli dell’Inaf di Palermo, primo autore dell’articolo. «Diversi esperimenti hanno mostrato che una dose minima di radiazione ultravioletta sembra essere necessaria per la sintesi in soluzione acquosa di alcuni precursori dell’acido ribonucleico (Rna), una molecola fondamentale per la vita, mentre una dose troppo alta è negativa perché distrugge molte biomolecole. Partendo da questi presupposti si può definire una zona attorno alle stelle dove un pianeta può ricevere un flusso ultravioletto sufficiente per innescare la sintesi dei mattoni fondamentali della vita, ma non troppo alto da distruggerli».

Riccardo Spinelli, ricercatore nella sede di Palermo dell’Inaf

Un delicato equilibrio cosmico a cui contribuiscono diversi fattori, dunque. L’esistenza di una zona di abitabilità ultravioletta, come si intuisce dalle parole del ricercatore, era già stata oggetto di un articolo pubblicato lo scorso anno dallo stesso autore. «In un precedente articolo», ricorda, «eravamo giunti alla conclusione che i pianeti attualmente scoperti attorno alle stelle M nella zona abitabile “classica” non ricevono abbastanza radiazione ultravioletta dalle loro stelle per innescare la formazione dell’Rna».

Un bias osservativo, diremmo in gergo, poichè le stelle M con pianeti in zona abitabile che conosciamo oggi sono stelle vecchie, con età superiore a 3 miliardi di anni. Oggi quindi la loro luminosità ultravioletta è troppo debole per poter innescare la formazione di alcuni mattoni fondamentali della vita come la conosciamo. Questo ha portato a pensare che la maggior parte delle stelle nella nostra Galassia non sia adatta a sviluppare la vita secondo una chimica che prevede una giusta dose di radiazione ultravioletta. 

Ma le stelle non sono immutabili, evolvono nel tempo e – in generale – subiscono un processo di raffreddamento che porta a una progressiva diminuzione della loro luminosità. È possibile, dunque, che durante i primi miliardi di vita, quando sono generalmente più luminose in ultravioletto, le stelle M riescano a irraggiare i pianeti nella zona abitabile con una dose sufficiente di radiazione ultravioletta? È quello che si sono chiesti Spinelli e il suo team di ricerca. «Abbiamo ricostruito l’evoluzione dell’emissione ultravioletta delle stelle M in esame – prosegue il ricercatore – trovando che in passato erano più luminose in banda ultravioletta e dunque la loro zona abitabile ultravioletta era più esterna rispetto a quella odierna».

In altre parole, quando una stella M è più giovane, ovvero nei suoi primi tre miliardi di anni di vita, la zona abitabile e la zona abitabile ultravioletta si intersecano, consentendo delle condizioni potenzialmente adatte all’origine e alla presenza di biomolecole. Ciò suggerisce che le condizioni per innescare la vita possono essere state molto comuni nella nostra galassia, anche se a tempi e per durate diverse a seconda della tipologia di stelle. Rimangono escluse da questo ragionamento – precisano i ricercatori – le stelle M più fredde, ovvero quelle con una temperatura efficace minore di circa 2500 gradi Celsius.

Lo studio si è basato sui dati raccolti dal telescopio spaziale Swift della Nasa, che osserva nella banda ultravioletta mediante il suo UltraViolet Optical Telescope (Uvot), e sulle osservazioni ottenute con il satellite Galex che hanno permesso agli autori di ricostruire un’evoluzione media della luminosità ultravioletta per ogni tipo di stella presa in esame. «Questo ci ha consentito di stimare a ogni tempo l’evoluzione della zona ultravioletta abitabile per ogni stella presente nel nostro campione e le possibili intersezioni nel passato e nel futuro con la zona abitabile “classica”», conclude Spinelli. «Come per Proxima Centauri, la stella a noi più vicina. Abbiamo stimato un’intersezione tra le due zone che può essere durata dai 200 milioni ai 3 miliardi di anni a seconda della composizione atmosferica del pianeta potenzialmente abitabile, una durata molto più lunga rispetto ad altre stelle M simili».

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