Era la primavera del 1990, la nazionale italiana di calcio si accingeva a giocare il secondo mondiale casalingo e intanto lo Shuttle Discovery si staccava dall’atmosfera trasportando uno speciale fardello, depositato nell’orbita terrestre e destinato all’osservazione del cosmo. Da allora – o per essere precisi dal 1993, quando con una delicata operazione si pose rimedio a un difetto delle ottiche – il telescopio Hubble ci ha regalato vedute straordinarie dell’universo. Nell’ultimo paio d’anni bisognerà ammettere che la grazia delle sue immagini ha subito un duro colpo, infertole dagli eccezionali panorami cosmici immortalati dal telescopio James Webb. Nello scrutare le parvenze di certe galassie lontane con i due strumenti si potrebbero provare sensazioni affini a quelle che si sperimentano in un negozio di elettronica comparando un televisore HD con un 4K. Eppure, nonostante i fisiologici acciacchi accumulati nella trentennale rivoluzione attorno al nostro pianeta, Hubble continua ad essere uno strumento estremamente utile per gli astronomi e di recente è stato protagonista di un’importante scoperta.
Alcuni ricercatori guidati da Matthew Hayes dell’Università di Stoccolma si sono accorti che nell’universo lontano ci sarebbero più buchi neri di quel che si credeva in passato. La scoperta è stata compiuta confrontando alcune immagini dell’Hubble Ultra Deep Field, una piccola regione nella costellazione della Fornace che è stata osservata ripetutamente da Hubble nel corso degli anni e tra le meglio studiate dell’universo. Gli scienziati hanno utilizzato le immagini ottenute nel vicino infrarosso dalla Wide Field Camera 3, strumento a bordo di Hubble, in tre anni diversi: 2009, 2012 e 2023. Una settantina di sorgenti hanno destato l’attenzione degli astronomi, in quanto presentano una vistosa variazione della brillantezza nelle immagini realizzate in tempi diversi. I ricercatori si sono soffermati in particolare su tre oggetti, che rappresenterebbero possibili buchi neri in fase di accrescimento, osservati quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni. Il cambiamento di luminosità sarebbe dovuto niente meno che a delle variazioni nel tasso di accrescimento di materiale che precipita sul buco nero. La materia, cadendo su un buco nero, si scalda emettendo radiazione. Solo che un buco nero, nel corso della sua esistenza, può ricevere più o meno materiale, accendendosi e spegnendosi a intermittenza. A questa sorta di “dieta intermittente” sarebbero dunque imputabili le variazioni di brillantezza osservate nelle immagini. I risultati della ricerca sono stati pubblicati il mese scorso su The Astrophysical Journal Letters.
Il numero di buchi neri individuati con questa tecnica risulta maggiore rispetto a quello osservato nella stessa epoca da altri studi, che hanno però impiegato metodologie differenti per individuare i buchi neri in attività. Il nuovo studio consente in particolare di porre dei vincoli ai modelli sulla formazione dei primi buchi neri. Nell’universo si osservano infatti buchi neri supermassicci grossi quanto miliardi di soli meno di un miliardo di anni dopo il Big Bang. Diversi scenari sono stati proposti per spiegare tali stazze poderose in epoche tanto remote. Secondo gli autori di questo studio, lo scenario che meglio si accorderebbe ai dati osservati è quello che vedrebbe i primi buchi neri come il prodotto del collasso di stelle antichissime, estremamente massicce e costituite solo da idrogeno e elio – le famigerate quanto elusive stelle di popolazione III. «Il meccanismo di formazione dei primi buchi neri è un pezzo importante del puzzle dell’evoluzione delle galassie» dice Hayes. E aggiunge: «Assieme ai modelli sulla crescita dei buchi neri, i calcoli sull’evoluzione della galassie possono essere ora ancorati a una base maggiormente motivata fisicamente, con uno schema accurato su come i buchi neri vengano alla luce dal collasso delle stelle massicce».
La tecnica adottata nello studio non è esente da incertezze. Le supernove sono in agguato come possibili contaminanti. L’esplosione di una stella può infatti produrre variazioni nelle immagini simili a quelle studiate da Hayes e collaboratori. Non a caso, diverse supernove sono state individuate fra i settanta oggetti inizialmente selezionati dagli astronomi. Gli autori dello studio sostengono che è altamente improbabile che i tre oggetti siano supernove. Un altro aspetto delicato riguarda la stima delle distanze. Solo per uno dei tre oggetti è infatti disponibile un redshift spettroscopico, che fornisce una stima estremamente accurata della distanza e dunque dell’epoca cosmica da cui proviene. Più incerte sono invece le informazioni sulle altre sorgenti.
Il lavoro è stato possibile in virtù della longevità di Hubble, che ha consentito di confrontare immagini realizzate dal telescopio spaziale a quindici anni di distanza. Con Webb uno studio del genere sarebbe attualmente difficile da realizzare, in quanto solo poco più di due anni sono trascorsi dalle prime immagini, un tempo scala troppo breve per apprezzare variazioni significative nella luce prodotta durante l’accrescimento sui buchi neri più remoti. L’esperienza paga insomma. Tra un po’ di anni gli astronomi si augurano di poter ripetere la ricerca utilizzando il telescopio Webb, per stanare i buchi neri attivi più deboli con la stessa tecnica. Nel frattempo, immagini di altre regioni del cosmo immortalate da Hubble sono pronte per essere scandagliate.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Glimmers in the Cosmic Dawn: A Census of the Youngest Supermassive Black Holes by Photometric Variability” di Matthew J. Hayes, Jonathan C. Tan, Richard S. Ellis, Alice R. Young, Vieri Cammelli, Jasbir Singh, Axel Runnholm, Aayush Saxena, Ragnhild Lunnan, Benjamin W. Keller, Pierluigi Monaco, Nicolas Laporte e Jens Melinder