È la sera del 24 dicembre 1968 e gli astronauti della missione Apollo 8 sono i primi esseri umani a sorvolare l’emisfero nascosto del nostro satellite. L’equipaggio è formato dal comandante Frank Borman, al suo secondo volo, dal pilota del modulo di comando James Lowell, al terzo volo, e dal pilota del modulo lunare William Anders al suo primo volo. Dopo avere passato i tre giorni del viaggio sempre in vista della Terra, gli astronauti, che hanno il compito di fotografare la superficie della Luna, si sentono isolati. Per questo, quando il moto della loro navicella li porta fuori dall’ombra della Luna, accolgono con gioioso stupore la vista dell’emisfero della Terra illuminata dal Sole. La registrazione della loro conversazione ci fa capire che è Anders il primo a farsi stregare dalla Terra scintillante. Inutilmente il comandante Borman cerca di dissuaderlo dal perdere tempo per una attività non programmata. Anders ride, chiede a Jim Lowell di sbrigarsi a passargli la macchina fotografica con il rullino a colori e immortala la visione della Terra che sorge. La Nasa la chiamerà Earthrise e penso andrebbe dedicata proprio a Bill Anders che, novantenne, ci ha lasciato il 7 giugno schiantandosi con il suo aereo. Oltre ad essere entrata a fare parte della lista delle 100 foto che hanno cambiato il mondo, compilata dalla rivista Life nel 2003, la Terra che sorge ha avuto l’onore della copertina di quel numero della rivista.
Benché l’esplorazione del nostro satellite abbia avuto importantissime ricadute scientifiche e tecnologiche, tutti gli astronauti lunari sono stati concordi nel dire che quello che li aveva colpiti di più era stato vedere la Terra così brillante e così isolata nel buio dello spazio. Eugene Cernan, comandante della missione Apollo 17, ha dichiarato: “siamo andati ad esplorare la Luna ma abbiamo scoperto la Terra”.
Sono in molti a pensare, probabilmente con ragione, che la foto della Terra che sorge, nella sua esplicita semplicità, abbia contribuito alla sviluppo della sensibilità ecologista. È un’immagine che muove le coscienze e certamente fa venire voglia di difendere il nostro pianeta, vaste aree del quale sono inquinate dalle attività industriali, dalle emissioni delle auto, dagli scarichi indiscriminati. Sarà questa la ragione di essere del primo Earth Day, organizzato il 22 aprile 1970 sotto la spinta del senatore democratico Gaylord Nelson, che pensò di dare voce alla preoccupazione delle giovani generazioni per lo stato dell’ambiente. Il pubblico rispose in massa: si contarono venti milioni di persone, una cifra enorme, pari al 10 per cento della popolazione americana dell’epoca. Un chiaro segnale per la politica Usa che, negli anni successivi, approvò le leggi per il controllo della qualità dell’aria e dell’acqua e per la protezione delle specie animali a rischio. Per i primi venti anni lo Earth Day è stata un’iniziativa esclusivamente americana, poi, nel 1990, è diventata globale coinvolgendo 200 milioni di persone in 141 paesi. Da allora non ha mai smesso di crescere rivolgendo la sua attenzione al cambiamento climatico, oltre che alla salvaguardia dell’ambiente.
Ecologia spaziale @Hoepli_1870 – un estratto del nuovo libro su la Domenica del @sole24ore pic.twitter.com/dMmIYZFyEf
— Patrizia Caraveo (@CaraveoPatrizia) October 27, 2024
Sappiamo benissimo che l’attività dell’uomo interferisce con gli equilibri ecologici locali e globali e questo è particolarmente vero per i beni comuni, quelli che il diritto romano chiamava res communes perché per loro natura non possono essere privatizzate, come l’atmosfera o gli oceani. Dal momento che sono a disposizione di tutti, ma non appartengono a nessuno, le res communes sono particolarmente esposte alle conseguenze di un eccessivo sfruttamento.
Se vogliamo lasciare un pianeta in buona salute alle generazioni future occorre promuovere un uso consapevole e sostenibile delle risorse globali della Terra, ma fino a dove ci dobbiamo spingere? In altre parole, quale sono i confini dell’ambiente che vogliamo proteggere? Dove finisce quello che ci circonda e ci permette di vivere e di operare? Gli esseri umani svolgono attività nello spazio dal 1957 e tradizionalmente si dava per scontato che le attività spaziali fossero confinate nello spazio. Oggi la situazione è radicalmente cambiata: la qualità della nostra vita dipende dalla possibilità di utilizzare servizi offerti da satelliti e, per venire incontro alla domanda del pubblico, il numero degli strumenti in orbita sta letteralmente esplodendo.
Il nostro pianeta è circondato da satelliti che svolgono un lavoro straordinario nello studiare i cambiamenti climatici, salvare vite umane e mitigare le conseguenze di disastri naturali, fornire servizi di comunicazione e navigazione globali e aiutarci a rispondere a importanti domande scientifiche.
Di sicuro i rapidi sviluppi tecnologici sono stati accompagnati da applicazioni innovative a beneficio della società. Purtroppo, però, stanno emergendo impatti negativi, come l’inquinamento luminoso, il pericolo di collisioni in orbita, il deposito di gas tossici nella nostra atmosfera ed i rischi di incidenti causati da detriti in caduta libera.
Ci siamo resi conto che lo spazio circumterrestre è un bene comune dell’umanità. Le sue dimensioni sono grandi, ma non infinite e rischia il sovraffollamento. Parliamo di un ambiente prezioso che è necessario preservare imparando a utilizzarlo in modo consapevole e sostenibile.
Generalizzando il concetto di ecosistema ad includere anche lo spazio circumterrestre dove orbitano i satelliti, stiamo completando un lungo cammino che è iniziato oltre 60 anni fa, grazie alla foto della Terra che sorge.
Per saperne di più:
- Leggi il libro di Patrizia Caraveo Ecologia spaziale. Dalla Terra alla Luna a Marte (Hoepli, 2024)