I DETTAGLI SU FRONTIERS IN PHYSIOLOGY

Nello spazio il cervello rallenta ma non si danneggia

Alcune funzioni cognitive risultano alterate a causa della permanenza nello spazio e dei fattori di stress a questa associati. I compiti che richiedono velocità di elaborazione, memoria di lavoro visiva e attenzione sostenuta risulterebbero, in particolare, rallentati, ma non meno accurati. Una buona notizia, dunque, soprattutto perché si tratterebbe di un rallentamento transitorio che scompare una volta rientrati sulla Terra

     20/11/2024

Il corpo umano non è progettato per lo spazio. Un’affermazione ovvia, banale, penserete. In virtù della quale non dovremmo stupirci ogni qualvolta uno studio sugli effetti fisiologici della permanenza nello spazio porta una cattiva notizia. Cosa che accade quasi sempre, infatti. Ma non questa volta: un nuovo studio, pubblicato oggi su Frontiers in Physiology, afferma che non vi sarebbe alcun deterioramento delle capacità cognitive degli astronauti a causa della permanenza in microgravità. Effetti sulle prestazioni, quelli sì, e li vedremo a breve, ma tutti reversibili e che non comprometterebbero la loro capacità di prendere decisioni e svolgere al meglio i compiti assegnati.

Gli astronauti della Nasa (in senso orario dal basso) Matthew Dominick, Jeanette Epps, Sunita Williams, Mike Barratt, Tracy Dyson e Barry Wilmore, in posa per un ritratto di squadra sulla Stazione spaziale internazionale l’11 luglio 2024. Crediti: Nasa

Studiare come la permanenza nello spazio altera la fisiologia degli astronauti è importante, non solo per progettare missioni spaziali di lunga durata, ma innanzitutto per valutare quali danni – permanenti e non – possono insorgere in chi trascorre svariati mesi in orbita nella Stazione spaziale internazionale (Iss). Il corpo e il cervello degli astronauti sono infatti esposti a fattori di stress ambientale che includono condizioni di rischio intrinseche al volo spaziale (come radiazioni, alterazione della gravità, isolamento e confinamento, permanenza in ambiente ostile/chiuso e distanza dalla Terra) e sfide operative (sovraccarico di lavoro, alterazione dei ritmi circadiani, ritardi nelle comunicazioni). Fattori, questi, che potrebbero compromettere il funzionamento cognitivo, fondamentale non solo per la qualità della vita degli astronauti, ma per la loro stessa sopravvivenza in orbita, dal momento che piccoli errori nei compiti complessi che devono svolgere quotidianamente possono portare a conseguenze anche drammatiche.

Alla domanda se le prestazioni cognitive degli astronauti cambiano durante la permanenza nello spazio, tuttavia, ancora non si sa dare una risposta precisa. Ora, un gruppo di ricercatori statunitensi ha lavorato con 25 astronauti che hanno trascorso una media di sei mesi sulla Iss per esaminare se abbiano riportato cambiamenti in un ampio spettro di prestazioni cognitive. Si tratta del campione di dati più ampio sulle prestazioni cognitive di astronauti professionisti pubblicato finora.

«Dimostriamo che non vi è alcuna prova di un significativo deterioramento cognitivo o di un declino neurodegenerativo negli astronauti che trascorrono sei mesi sulla Iss», commenta Sheena Dev, ricercatrice al Behavioral Health and Performance Laboratory della Nasa e prima autrice dell’articolo. «Vivere e lavorare nello spazio non è stato associato a un diffuso deterioramento cognitivo che sarebbe sintomatico di un danno cerebrale significativo».

Un’affermazione, quella della prima autrice, che rincuora. Ma che non significa che il cervello e le funzioni cognitive rimangano inalterate durante il soggiorno nello spazio. Vediamo i dettagli. Gli astronauti, tutti rimasti non più di sei mesi in orbita bassa sulla Iss, sono stati sottoposti a una serie di test sviluppati per valutare diversi domini cognitivi. Per ognuno di questi test, i ricercatori hanno misurato la velocità e l’accuratezza delle risposte in cinque momenti: una volta prima della missione, due volte in missione (rispettivamente entro 30 giorni dal lancio e dal ritorno) e due volte dopo la missione (rispettivamente entro 10 e 30 giorni dall’atterraggio).

Nelle prime fasi del volo è stato osservato un rallentamento delle prestazioni nei test che valutavano la velocità di elaborazione, la memoria di lavoro visiva e la capacità di mantenere l’attenzione per un tempo prolungato. Non solo, è stata notata anche una diminuzione della propensione al rischio durante la fase finale del volo e quella successiva alla missione.

«Anche sulla Terra, la velocità di elaborazione, la memoria di lavoro e l’attenzione sono domini cognitivi che possono mostrare cambiamenti temporanei quando un individuo è sotto stress. Altri domini, come la memoria, sono meno vulnerabili ai fattori di stress. Per esempio, se si ha una giornata molto impegnativa, ma la notte precedente non si è riusciti a dormire molto, si può avere la sensazione che sia difficile prestare attenzione o che sia necessario più tempo per completare i compiti», spiega Dev. Come a dire che le funzionalità cerebrali più vulnerabili quando gli astronauti sono a bordo della Iss sono le stesse che, qui sulla Terra, risentono maggiormente dello stress.

Delle ripercussioni, dunque, ci sarebbero. Ma non devono preoccupare troppo, secondo quanto trovato finora. Primo perché si parla sempre di rallentamento, e non di deterioramento delle funzioni cognitive. Secondo, perché una volta rientrati sulla Terra questi cambiamenti non sono rimasti a lungo. Il rallentamento nelle prestazioni che riguardavano l’attenzione, ad esempio, è stato osservato solo all’inizio della missione, mentre il rallentamento nella velocità di elaborazione è tornato ai livelli di base dopo la fine della missione con il ritorno dell’equipaggio sulla Terra. Nel complesso, comunque, le prestazioni cognitive degli astronauti sono rimaste stabili e i ricercatori non hanno trovato prove che suggerissero danni al sistema nervoso centrale durante una missione spaziale di sei mesi.

In futuro, bisognerà capire se e come questi risultati cambiano quando si tratta di una permanenza nello spazio prolungata e a distanza maggiore dalla Terra – come nel caso di un viaggio verso la Luna o su Marte. Rimane da scoprire anche quale sia il motivo fisiologico per cui si verificano questi cambiamenti, e valutare se le prestazioni operative degli astronauti ne abbiano risentito.

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