Batteri in un campione di roccia dell’asteroide Ryugu, quelli portati sulla Terra quattro anni fa dalla missione giapponese Hyabusa 2. Batteri terrestri, chiariamolo subito. Batteri di genere Bacillus che hanno contaminato il campione che stavano analizzando i ricercatori dell’Imperial College London. La notizia, pubblicata dagli stessi ricercatori il 13 novembre su Meteoritics & Planetary Science, è stata ripresa nei giorni scorsi da varie testate, a partire da Nature e dal New Scientists. Un bel resoconto lo potete trovate anche su Sorvegliati spaziali.
Fra i gruppi di ricerca nel mondo che hanno ricevuto campioni di Ryugu da analizzare ce n’è anche uno guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica, quello al quale sono stati affidati i frammenti Kiki e Totoro. Abbiamo contattato lo scienziato che ha coordinato l’analisi, Ernesto Palomba, dell’Inaf di Roma, per provare a capire cosa possa essere accaduto al team dei suoi colleghi inglesi, quanto siano frequenti episodi di questo tipo e, soprattutto, come comportarsi per tentare d’evitarli.
Palomba, parliamo di campioni simili? Intendo dire, quello contaminato dell’Imperial College è analogo ai due che sono stati affidati al suo team?
«Sì, quelli distribuiti ai vari laboratori nel mondo, provenendo dall’asteroide Ryugu, sono tutti grani simili ai nostri. Noi ne abbiamo ricevuti due, uno raccolto nella parte più antica, l’altro proveniente invece da un sito che è sicuramente più giovane, ma per il resto sì, sono assolutamente simili a quello analizzato a Londra».
Quello “incriminato”. È qualcosa che accade spesso, che avvenga una contaminazione di campioni provenienti dallo spazio?
«La contaminazione di materiale extraterrestre è un problema enorme. Era già noto da tempo, grazie all’analisi di meteoriti. Io stesso ho un aneddoto da raccontare. Parlo di circa venticinque anni fa, mentre stavo cercando di analizzare un meteorite marziano. Era il periodo in cui veniva data notizia delle prime potenziali forme di vita “extraterrestri”, ovviamente tra virgolette: mi riferisco al famoso paper di David McKay del 1996 – che ha poi un po’ spinto la nascita dell’astrobiologia, dell’esobiologia – dove una struttura analizzata al microscopio elettronico era stata in qualche modo associata a qualche forma di vita microbica. Ecco, in quel periodo, appunto, io stavo osservando un campione della meteorite Zagami – una shergottite – al microscopio elettronico, e notai delle strutture filamentose proprio tipo quelle che sono state osservate all’Imperial College sui campioni da Ryugu. Queste strutture filamentose, sotto il fascio molto potente del microscopio elettronico, pian piano si sono consumate. Segno del fatto che si trattava di strutture organiche, strutture di contaminazione dovute a forme di vita microbica – terrestre – cresciute sul tessuto del minerale della meteorite Zagami. Dunque sì, la contaminazione è un problema noto da tempo, e se non si prendono le giuste accortezze è possibile che anche i campioni d’asteroide riportati dallo spazio – come questi di Ryugu, o di Itokawa, che sono i primi campioni rocciosi portati a Terra, o anche in futuro quelli di Bennu – possano venire contaminati».
Ma quando può essere accaduto, nel caso dell’Imperial College?
«Quando esattamente sia accaduto è difficile dirlo. È comunque sempre necessario adottare accortezze estreme per isolare il campione dall’atmosfera. Questo è il primo passo».
Voi come avete fatto, con i vostri campioni?
«Abbiamo fatto tutto il possibile per lavorare sempre in un ambiente protetto, sempre flussato con azoto, in modo da minimizzare ogni contatto con l’atmosfera terrestre, in particolare con con il vapor d’acqua. Nel nostro caso eravamo molto preoccupati per la contaminazione da vapor d’acqua, che è sicuramente quella più comune: può accadere con grande facilità, almeno rispetto a quella da batteri terrestri, che è invece più rara. Ma anche quest’ultima può comunque accadere, nel caso di una raccolta, o di un’archiviazione, di un cosiddetto storing del materiale in condizioni non perfette».
Ora dove si trovano, i due campioni affidati a voi?
«Attualmente sono nel nostro laboratorio, all’Inaf Iaps di Roma, all’interno di un portacampioni flussato di azoto, quindi in condizioni molto protette. È un portacampioni che abbiamo costruito ad hoc proprio per evitare la contaminazione dell’ambiente terrestre, in particolare la possibilità che l’atmosfera – quindi il vapor d’acqua – possa in qualche modo contaminare i granelli di Ryugu, circostanza che produrrebbe anche una trasformazione dei minerali presenti all’interno di questi granelli».
Potrebbero essersi contaminati anche loro, come quelli inglesi?
«Abbiamo fatto delle misure a distanza di qualche mese cercando una qualche contaminazione anche minima dovuta dell’atmosfera terrestre, in particolare quella provocata dalle molecole d’acqua, che come dicevo è la più facile che possa accadere. Ebbene, con due misure effettuate a mesi di distanza con la microscopia infrarossa, appunto, siamo stati in grado di determinare che i granelli sono rimasti sostanzialmente nelle condizioni originali, quindi sicuramente in condizioni primitive, come quando sono arrivati dall’asteroide. Questo grazie anche al nostro portacampioni».
Ma se si trovasse un batterio alieno in un campione dallo spazio, come si può essere ragionevolmente certi che non sia frutto di una contaminazione? Qual è la firma più affidabile?
«Ecco, hai detto bene: batterio alieno. Nel senso che ci aspettiamo che tutto ciò che troviamo su una particella di Ryugu sia “alieno” rispetto a Ryugu: detto altrimenti, che sia in realtà una contaminazione terrestre che possa essere stata innestata sul granello stesso. Quel che si può fare è eseguire misure molto specifiche, molto particolari, che possono richiedere ad esempio il sequenziamento del Dna, ma è molto raro imbattersi in un batterio o resti di batteri, com’è accaduto in questo caso».
Un’ultima cosa: è di questa settimana l’annuncio della candidatura di Prato a ospitare un laboratorio – una Curation Facility – interamente dedicato all’analisi di campioni extraterrestri. Potrà aiutare, avere un laboratorio dedicato, a ridurre eventi come questo avvenuto all’Imperial College?
«Sicuramente sarà una struttura molto importante. Noi stessi, come Istituto nazionale di astrofisica, facciamo parte del consorzio. Sarà importante perché all’interno della facility ci sarà strumentazione in grado di permetterci d’effettuare diversi tipi di misure – e quindi di caratterizzazione dei materiali extraterrestri presenti – contemporaneamente e nello stesso posto. Per quanto riguarda specificamente la riduzione delle possibilità di contaminazione, è vero che si può fare già oggi, come abbiamo fatto appunto noi realizzando, come dicevo, un portacampioni ad hoc e trasferendo le particelle di Ryugu utilizzando le glove box – scatole a tenuta che garantivano l’isolamento dei grani dall’atmosfera terrestre. Rimane il fatto che, sempre per riferirci al nostro caso, abbiamo dovuto portare i campioni qua e là per vari laboratori, anche in città diverse – abbiamo fatto analisi a Roma e a Firenze. Una facility come quella in fase di realizzazione ci permetterebbe invece di avere tutta la strumentazione in un unico posto, e questo sicuramente aiuterà parecchio a mantenere i campioni nello stato “primordiale”, incontaminati. Rappresenterà insomma un notevole avanzamento, non vediamo l’ora che sia disponibile».
Per saperne di più:
- Leggi su Meteoritics & Planetary Science l’articolo “Rapid colonization of a space-returned Ryugu sample by terrestrial microorganisms”, di Matthew J. Genge, Natasha Almeida, Matthias Van Ginneken, Lewis Pinault, Louisa J. Preston, Penelope J. Wozniakiewicz e Hajime Yano