Dodici miliardi e novecento milioni di anni. Tanto è il tempo che la luce dell’oggetto J0410-0139 ha impiegato per giungere fino a noi. Una luce molto particolare: è il fascio di fotoni emesso da un Agn, una galassia nel cui nucleo alberga un buco nero attivo. Iperattivo, in questo caso: stiamo infatti parlando di un quasar, ovvero un nucleo eccezionalmente luminoso. Ma c’è di più: oltre a essere luminosissimo, il fascio di luce emesso da J0410-0139 è puntato dritto verso di noi. Quest’ultimo dettaglio è ciò che lo rende non un semplice quasar, bensì un blazar. Il blazar più distante, e quindi più antico, mai osservato fino a oggi. Dunque un record, certo, ma a rendere questa sua antichità interessante agli occhi degli astronomi è ciò che ne consegue: potrà aiutarli a comprendere come i buchi neri supermassicci siano stati in grado di crescere così rapidamente nell’universo primordiale.
La scoperta è il risultato di una ricerca sistematica di nuclei galattici attivi in epoche remote condotta da Eduardo Bañados, astrofisico alla guida di un gruppo specializzato nei primi miliardi di anni di storia cosmica del Max-Planck-Institut für Astronomie tedesco – gruppo del quale fa parte anche Silvia Belladitta, associata Inaf – e da un team internazionale di astronomi fra i quali Roberto Decarli dell’Inaf di Bologna. Poiché la luce impiega un certo tempo per raggiungerci, vediamo gli oggetti lontani come erano milioni o addirittura miliardi di anni fa. Non solo: il cosiddetto redshift cosmologico – fenomeno dovuto all’espansione cosmica – sposta lo spettro della loro luce a lunghezze d’onda molto più lunghe di quelle a cui era stata emessa. Bañados e il suo team hanno dunque sfruttato questa caratteristica per compiere una ricerca sistematica di oggetti talmente spostati verso le frequenze più basse da non apparire nemmeno più nelle survey in luce visibile (in particolare, nella Dark Energy Legacy Survey) ma presenti, invece, come sorgenti luminose in banda radio nella survey a 3 GHz Vlass.
Sono così emersi venti candidati che soddisfacevano entrambi i criteri. Fra questi c’era J0410-0139, l’unico a esibire anche un’altra curiosa caratteristica, tipica dei blazar: significative fluttuazioni di luminosità nel regime radio. Per avere la certezza che proprio di un blazar si trattasse, gli autori dello studio hanno scomodato una quantità ragguardevole di telescopi in tutto il mondo e nello spazio, fra i quali l’Ntt per le osservazioni in infrarosso, il Vlt, Lbt, uno dei telescopi Keck e il telescopio Magellan per gli spettri, i due telescopi spaziali per raggi X Chandra e Xmm-Newton, il Vla per la banda radio e, infine, gli array Alma e Noema per le osservazioni a onde millimetriche. Grazie a questa campagna multibanda è stato anche possibile determinare il redshift esatto del blazar, risultato pari a z=6.9964, e di conseguenza il tempo che la sua luce ha impiegato per giungere fino a noi: come dicevamo in apertura, 12.9 miliardi di anni.
Luce dunque risalente a un’epoca – quella della reionizzazione – di estremo interesse per gli astronomi. I fotoni del precedente detentore del record di “blazar più distante” (a redshift z=6.1) hanno impiegato circa cento milioni di anni in meno per raggiungerci. Cento milioni di anni in più o in meno possono sembrare pochi, se si considera che stiamo guardando indietro di oltre 12 miliardi di anni, ma in realtà la differenza è cruciale. Parliamo infatti di un periodo in cui l’universo sta cambiando rapidamente. In quei cento milioni di anni, un buco nero supermassiccio può aumentare la sua massa di un ordine di grandezza. In base ai modelli attuali, il numero di quasar dovrebbe essere aumentato di un fattore da cinque a dieci durante quei cento milioni di anni. Detto altrimenti, trovare un blazar risalente a 12.8 miliardi di anni fa non sarebbe inaspettato, ma trovare un blazar risalente a 12.9 miliardi di anni fa, come in questo caso, è tutta un’altra cosa.
«Il fatto che J0410-0139 sia un blazar – un getto che per caso punta direttamente verso la Terra – ha immediate implicazioni statistiche», sottolinea a questo proposito Bañados. «Per fare un’analogia con la vita reale, immaginate di leggere che qualcuno ha vinto cento milioni di dollari alla lotteria. Considerata la rarità di una tale vincita, si può immediatamente dedurre che ci debbano essere state molte altre persone che hanno partecipato a quella lotteria, ma che non hanno vinto una somma così esorbitante. Allo stesso modo, trovare un Agn con un getto che punta direttamente verso di noi implica che in quel periodo della storia cosmica dovessero esserci molti Agn con getti che non puntavano verso di noi».
In altre parole, riassume efficacemente Belladitta, «dove ce n’è uno, ce ne sono altri cento». Ed è per questo che la scoperta di J0410-0139 è di grande rilievo per ricostruire l’evoluzione del cosmo: si pensa infatti che i buchi neri con getti possano crescere molto più rapidamente di quelli senza getti.
L’eccezionale antichità di J0410-0139 ha poi un altro risvolto di notevole interesse per gli astronomi: è un faro eccezionale per guardare la reionizzazione “in controluce”, analizzando le righe d’assorbimento dovute alla materia incontrata dalla luce del blazar nella sua corsa fino a noi attraverso lo spazio e il tempo. «Un radio-quasar molto brillante a z~7 – come questa sorgente – potrebbe permetterci di studiare la “foresta” della linea 21 cm, cioè una serie di segnali radio prodotti dall’idrogeno neutro», spiega Belladitta a Media Inaf. «Osservare la 21 cm forest è una delle chiavi per ricostruire i primi momenti della storia cosmica, perché ci permette di studiare direttamente l’idrogeno neutro, la sua temperatura, i suoi movimenti. E di capire, guardando sia la profondità che la forma del segnale di assorbimento, quali tipi di oggetti – stelle, galassie o buchi neri – abbiano prodotto abbastanza energia per ionizzare l’idrogeno. Questo ci aiuta a rispondere a una domanda fondamentale: quali sono state le vere “protagoniste” della reionizzazione cosmica?»
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A blazar in the epoch of reionization”, di Eduardo Bañados, Emmanuel Momjian, Thomas Connor, Silvia Belladitta, Roberto Decarli, Chiara Mazzucchelli, Bram P. Venemans, Fabian Walter, Feige Wang, Zhang-Liang Xie, Aaron J. Barth, Anna-Christina Eilers, Xiaohui Fan, Yana Khusanova, Jan-Torge Schindler, Daniel Stern, Jinyi Yang, Irham Taufik Andika, Christopher L. Carilli, Emanuele P. Farina, Andrew Fabian, Joseph F. Hennawi, Antonio Pensabene e Sofía Rojas-Ruiz
- Leggi la press release del Max-Planck-Institut für Astronomie (in inglese)
- Leggi la press release del National Radio Astronomy Observatory (in inglese)