Vi trovate in un museo a cielo aperto, non sulla Terra, ma su un altro pianeta: Marte. Qui, i resti di rover, lander e sonde spaziali non sono semplici “rifiuti spaziali”, ma testimonianze preziose di un’umanità che si spinge oltre i confini del proprio mondo.
È questa la visione dell’antropologo Justin Holcomb dell’Università del Kansas: un commento del quale è primo autore, pubblicato la settimana scorsa su Nature Astronomy, propone che gli artefatti lasciati dall’uomo su Marte debbano essere considerati patrimonio culturale. Non spazzatura galattica, quindi, ma eredità storica. E proprio come Indiana Jones esplorava templi e scavava nella storia, gli antropologi ora vogliono studiare e proteggere le tracce lasciate dalla nostra specie durante l’epopea dell’esplorazione interplanetaria.
Secondo Holcomb, il desiderio umano di esplorare lo spazio è una naturale continuazione della nostra storia evolutiva. «Homo sapiens sta attualmente attraversando una fase di dispersione, che è iniziata dall’Africa, ha raggiunto altri continenti e ora si è spostata in ambienti extra terrestri», dice il ricercatore. «Abbiamo iniziato a popolare il Sistema solare. E proprio come usiamo i manufatti e le tracce storiche per seguire il nostro movimento, la nostra evoluzione e la nostra storia sulla Terra, potremmo farlo su altri pianeti o nello spazio seguendo le sonde, i satelliti, i lander e i vari materiali lasciati dietro di noi».
Dalla migrazione fuori dall’Africa fino alla colonizzazione di continenti remoti, l’espansione di Homo sapiens ha, dunque, lasciato una traccia fisica che gli archeologi possono seguire attraverso manufatti, insediamenti e altri resti andando letteralmente a rovistare nelle discariche per rivelare i segreti delle società passate sulla Terra. Questo processo, argomenta l’antropologo, si sta estendendo oltre i confini del nostro pianeta e gran parte del materiale considerato “spazzatura spaziale” può invece avere un grande valore archeologico e ambientale.
«Sono i primi segni materiali della nostra presenza», osserva Holcomb. «Molti scienziati si riferiscono a questo materiale come fossero rifiuti galattici. La nostra argomentazione è che non si tratta di spazzatura spaziale: è in realtà qualcosa di molto importante. È fondamentale cambiare questa narrativa e considerarlo come “patrimonio culturale”, perché la soluzione per i rifiuti è la rimozione, mentre per il patrimonio c’è la conservazione. C’è una grande differenza».
L’argomentazione di Holcomb per la conservazione delle tracce dell’esplorazione umana su altri pianeti si basa su un lavoro precedente, in cui si sosteneva la necessità di dichiarare un “antropocene lunare”, ovvero un’epoca di dominio umano sul paesaggio lunare. E la sua proposta va oltre il semplice riconoscimento del valore simbolico di questi artefatti. Egli sostiene che le future missioni spaziali dovrebbero considerare con attenzione l’impatto che potrebbero avere su siti già “occupati” da tracce umane. Atterrare in prossimità di veicoli, rover o strumenti precedenti potrebbe infatti compromettere il contesto archeologico o storico di questi oggetti.
L’uomo ha raggiunto Marte per la prima volta oltre cinquant’anni fa, dando inizio alla storia dell’attività umana sul Pianeta rosso. Il primo indizio tangibile della nostra presenza su Marte risale al 1971, quando il rover sovietico Mars 2 Orbiter si schiantò sulla superficie del pianeta. Da allora, ogni missione ha lasciato il segno: dalle sonde americane Viking degli anni ’70, al rover Perseverance e al piccolo elicottero Ingenuity – primo drone a volare su un altro pianeta. Tutte testimonianze importanti del progresso scientifico e tecnologico nella conquista di uno dei pianeti più vicini al nostro. Purtroppo però, mentre gli antropologi hanno una certa conoscenza di come il clima e la geologia contribuiscano al degrado degli artefatti sulla Terra, i processi marziani e le caratteristiche come la velocità e la gravità dei danni sui reperti causati da raggi cosmici, venti, acqua e suolo sono attualmente poco conosciuti.
«La geoarcheologia studia gli effetti geologici sui materiali archeologici», spiega Holcomb. «La geoarcheologia planetaria è un settore di studi futuro, e dobbiamo considerare i materiali non solo su Marte in generale ma anche in diverse aree del pianeta dove i processi sono differenti. Ad esempio, nelle latitudini settentrionali e meridionali Marte ha una criosfera, e l’azione del ghiaccio accelera sicuramente l’alterazione dei materiali. Ancora: con le sabbie ferrose di Marte, cosa succede quando i materiali vengono sepolti? Inoltre, le tempeste marziani di polvere globali sono uniche nel loro genere, una singola tempesta può letteralmente attraversare l’intero globo. Il rover Spirit, ad esempio, si trova proprio accanto a un campo di dune che alla fine lo seppellirà. E, una volta sepolto, sarà molto difficile da ritrovare».
Marte potrebbe idealmente diventare il primo “museo extraterrestre”, non costruito con mura o monumenti, ma formato dall’intero pianeta. Occorrerebbe, secondo gli studiosi, stabilire una metodologia per monitorare e catalogare i reperti, creando un archivio di oggetti da preservare utilizzando database come, per esempio, il Registro degli oggetti lanciati nello spazio esterno. dell’Onu.
Ogni pezzo di tecnologia lasciato sul suolo marziano è un frammento della nostra evoluzione. «Come le punte di Clovis in America o gli antichi utensili di pietra in Africa, questi artefatti», conclude Holcomb, «marcano momenti chiave nella storia dell’umanità, una traccia della nostra transizione da specie terrestre a esploratori del cosmo».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “The emerging archaeological record of Mars”, di Justin A. Holcomb, Beth L. O’Leary, Alberto G. Fairén, Rolfe D. Mandel e Karl W. Wegmann