Una serie di fortunati eventi, e certamente tanto lavoro oltre che l’uso del miglior telescopio al mondo, ha consentito a un gruppo di astronomi guidati da Yoshinobu Fudamoto di osservare per la prima volta quarantaquattro stelle in una galassia a sei miliardi e mezzo di anni luce dalla Terra. Si tratta di un record: mai si erano viste in una galassia a tale distanza tutte queste stelle, distinguendo le une dalle altre. Lo scoperta è stata realizzata col James Webb Space Telescope ed è uscita la scorsa settimana su Nature Astronomy.
«Le galassie che sono molto lontane solitamente ci appaiono come un blob diffuso e confuso», dice Fudamoto, ricercatore dell’Università di Chiba, in Giappone, e ospite dello Steward Observatory di Tucson, in Arizona. «Ma in realtà questi blob sono fatti di tante, tantissime stelle. Solo che non possiamo risolverle – ovvero, distinguerle – con i nostri telescopi».
Parliamo di galassie situate a miliardi di anni luce dal nostro pianeta, infinitamente più remote di Andromeda, la nostra vicina di casa, in cui, con le tecnologie attuali, potremmo letteralmente noverar le stelle ad una ad una, come fantasticava un malinconico pastore. Cimentarsi in questo compito con le galassie lontane sarebbe un po’ come provare a distinguere i granelli di sabbia di un cratere lunare con un umile binocolo. Perfino Webb, portentoso strumento che osserva nell’infrarosso, non ce la fa a distinguere le singole stelle in galassie tanto remote. E allora, come hanno fatto gli astronomi a vederle? Qui entrano in gioco i fortunati eventi, che sono due nella fattispecie.
Il primo fortunato evento è il lensing gravitazionale. Per circostanze assolutamente accidentali la galassia studiata da Fudamoto e collaboratori si trova dietro un ammasso di galassie, ovvero un numeroso insieme di galassie che abbonda di gas bollente e materia oscura. L’ammasso in questione è Abell 370, situato a quattro miliardi di anni luce dalla Terra. Per un effetto previsto da Einstein – il lensing gravitazionale, per l’appunto – oggetti come Abell 370 possono, in virtù dell’immane contenuto di materia, deviare in maniera significativa la luce degli oggetti che si trovano alle loro spalle. Non solo. La luce viene pure amplificata, cosicché galassie che ci apparirebbero fioche, a causa della smisurata distanza o perché intrinsecamente deboli, si mostrano a noi con una sgargianza che si sognerebbero se non ci fosse il lensing. In questo modo, galassie che potevano essere condannate a eterna invisibilità, “coperte” da entità ingombranti come gli amassi, si manifestano ai nostri occhi in tutto il loro splendore.
Bisognerà dire che qualche ammaccatura l’incontro ravvicinato con l’ammasso – che si comporta dunque da “lente” – la lascerà, cosicché la luce della galassia in questione apparirà distorta e con una caratteristica forma ad arco, traccia inequivocabile del lensing. Non a caso, la galassia oggetto della scoperta è stata ribattezzata Dragon Arc ed è visibile addirittura più volte nell’immagine sottostante in quanto il lensing, tanto per non farsi mancare niente, ha pure un effetto moltiplicativo sulle immagini delle galassie.
Sfruttando l’amplificazione della luce dovuta al lensing gravitazionale, Fudamoto e collaboratori sono riusciti a scorgere insospettabili dettagli nel Dragon Arc. Ben quarantaquattro singole stelle sono state individuate, confrontando alcune immagini della galassia realizzate da Webb a dicembre 2022 e 2023. Fondamentale è stato il lavoro di Fengwu Sun, secondo autore dello studio, che ha ispezionato le diverse immagini. «Questa scoperta senza precedenti dimostra, per la prima volta, che studiare un gran numero di singole stelle in una galassia lontana è possibile», commenta.
Tuttavia, il lensing gravitazionale dovuto al solo ammasso non è sufficiente per spiegare le numerose stelle osservate dai ricercatori. E qui entra in gioco il secondo fortunato evento, che viene spiegato da Eiichi Egami, tra i collaboratori dello studio: «All’interno dell’ammasso di galassie, fluttuano numerose stelle che non appartengono a nessuna galassia. Quando una di queste passa davanti a una stella nella galassia lontana lungo la linea di vista, essa agisce come una “microlente”, che si aggiunge al macrolensing dell’ammasso nel suo insieme.» Due fenomeni insieme, dunque, il macrolensing su scala dell’ammasso e il microlensing su scala stellare, collaborano efficacemente aumentando la brillantezza delle singole stelle e rendendole visibili agli occhi di Webb. Gli ci è voluto l’aiutino, dunque, stavolta. Addirittura, le stelle del Dragon Arc appaiono e scompaiono in immagini catturate in tempi diversi, in quanto esse diventano visibili solo quando si trovano perfettamente allineate con gli astri che vagano nell’ammasso. Che però si muovono, determinando un’apparente sparizione delle stelle quando viene meno l’allineamento.
E come sono queste stelle? Apparirebbero grandi e rosse. Piuttosto vetuste dunque, come le familiari Betelgeuse e Antares, diversamente da quanto affermato da studi precedenti, che avevano identificato prevalentemente supergiganti blu all’interno della galassia. Per il futuro gli astronomi prevedono di osservare molte più stelle nel Dragon Arc sfruttando nuove osservazioni di Webb. Questo lavoro potrebbe fare da apripista a osservazioni di centinaia di astri nelle galassie lontane. Lo studio delle singole stelle potrebbe fornirci ulteriori dettagli sulla struttura degli ammassi che fanno da lente e sul contenuto di materia oscura.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Identification of more than 40 gravitationally magnified stars in a galaxy at redshift 0.725” di Y. Fudamoto, F. Sun, J. M. Diego, L. Dai, M. Oguri, A. Zitrin, E. Zackrisson, M. Jauzac, D. J. Lagattuta, E. Egami, E. Iani, R. A. Windhorst, K. T. Abe, F. E. Bauer, F. Bian, R. Bhatawdekar, T. J. Broadhurst, Z. Cai, C.-C. Chen, W. Chen, S. H. Cohen, C.J. Conselice, D. Espada, N. Foo, B. L. Frye, S. Fujimoto, L. J. Furtak, M. Golubchik, T.Yu-Yang Hsiao, J.-B. Jolly, H. Kawai, P. L. Kelly, A. M. Koekemoer, K. Kohno, V.Kokorev, M.Li, Z. Li, X. Lin, G. E. Magdis, Ashish K. Meena, A. Niemiec, A. Nabizadeh, J. Richard, C. L. Steinhardt, Y. Wu, Y. Zhu e S. Zou