Cinquanta centimetri al secondo: questa la velocità alla quale i granelli di roccia e polvere vanno sbattuti gli uni contro gli altri per formare i pianeti. A colpi di mezzo metro in un secondo se la giocano i millimetrici frammenti per assemblare strutture più grandi, caricarsi elettricamente e raggiungere la stazza di qualche centimetro. Neanche due chilometri orari perché i minuscoli scarti, puntiformi irrilevanze grandi solo mezzo millimetro, minutissimi avanzi della generazione di un astro, collidano fra loro in un disco protoplanetario e producano l’embrione di un pianeta.
La “ricetta” per formare i pianeti l’ha trovata un gruppo di ricercatori guidati da Jens Teiser dell’Università di Duisburg-Essen in Germania. L’Esa le ha dedicato una fotonotizia la scorsa settimana. I dettagli della scoperta si possono leggere su Nature Astronomy, in un articolo uscito a gennaio. Un assaggio ce lo regala quest’immagine, che immortala un frammento di polvere e roccia costituito da una miriade di particelle che si sono aggregate fra di loro. A formare quello che potrebbe essere il primo mattoncino di un pianeta.
Un grumo di roccia e polvere grande qualche centimetro si forma grazie all’attrazione reciproca di minuscole particelle che collidono tra loro. Crediti: University of Duisburg-Essen
Lo studio è stato effettuato in assenza di peso, ovvero in quella condizione che prende il nome di microgravità. Per ottenerla, i ricercatori hanno spedito i grani di polvere nello spazio a bordo del SubOrbital Express-3, un razzo-sonda di tipo Maser (Materials Science Experiment Rocket) partito dal nord della Svezia nel 2022. I razzi-sonda sono vettori pensati per svolgere esperimenti scientifici ad alta quota e in condizioni di microgravità. Quest’ultima è ottenuta lasciando precipitare il razzo in caduta libera fino al dispiegamento di un paracadute. Nella fattispecie, il razzo utilizzato da Teiser e collaboratori è piombato a picco da un’altezza di 260 km, regalando sei minuti di microgravità ai frammenti protagonisti dell’esperimento. Il processo di formazione dei pianeti possiede a oggi degli aspetti non compresi. Gli scienziati hanno dunque deciso di sbarazzarsi della gravità terrestre per indagare le prime fasi di questo sfuggente fenomeno.
E così hanno scoperto che, se scagliati troppo rapidamente gli uni verso gli altri o se sono troppo grandi, anziché aggregarsi in grumi sempre più grossi – come ci si aspetterebbe nel processo di formazione planetaria – i grani di polvere finivano col disintegrare gli aggregati esistenti, producendo cascate di particelle da tutte le parti. Perché i pezzetti si fondessero efficacemente erano necessari valori specifici di dimensioni e velocità: mezzo millimetro e mezzo metro al secondo. Le collisioni dotavano infatti i granelli con queste caratteristiche di carica elettrica che consentiva loro di attrarsi reciprocamente. E di raggiungere le dimensioni di qualche centimetro. Tale aspetto è stato evidenziato anche dalle simulazioni numeriche.
Questo esperimento suggerisce che anche i piccolissimi elementi di un disco protoplanetario potrebbero dissolversi o, al contrario, crescere di dimensioni se sottoposti alle stesse condizioni investigate all’interno del razzo. I ricercatori stanno incorporando questi risultati all’interno dei modelli che spiegano il funzionamento dei dischi protoplanetari e la crescita delle particelle per guadagnare qualche prezioso dettaglio sul processo di formazione planetaria.
Per saperne di più:
- Guarda la fotonotizia dell’Esa
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “The growth of super-large pre-planetary pebbles to an impact erosion limit” di J. Teiser, J. Penner, K. Joeris, F. C. Onyeagusi, J. E. Kollmer, D. Daab e G. Wurm