SPIEGATO UN “GIANT FLARE” SCOPERTO CON INTEGRAL 20 ANNI FA

A volte ritornano: il brillamento gigante del 2004

Vent'anni dopo l'osservazione del più potente brillamento gigante di magnetar mai rivelato, un nuovo modello teorico spiega i dettagli di una componente dell'emissione rimasta a lungo misteriosa, mettendo in relazione questi poderosi eventi con la produzione di elementi pesanti come l'oro e il platino. Con i commenti di Sandro Mereghetti dell'Inaf, che aveva analizzato i dati originali

     29/04/2025

Ogni tanto, nell’universo, un terremoto stellare squarcia la superficie di una magnetar, una stella di neutroni dal campo magnetico molto intenso, sputando fuori una gigantesca quantità di energia. Migliaia di anni più tardi, sulla Terra, arriva notizia della colossale esplosione cosmica, sotto forma di raggi gamma. E se gli astrofisici, oltre a essersi preventivamente attrezzati con un satellite sensibile a questa radiazione e opportunamente piazzato in orbita, hanno anche un pizzico di fortuna, possono catturare un segnale mai visto prima.

Sandro Mereghetti, ricercatore Inaf presso l’Istituto di astrofisica spaziale e fisica cosmica a Milano

È quello che è successo poco più di vent’anni fa, alle 21:30 tempo universale – 22:30 ora italiana – del 27 dicembre 2004, quando la missione Integral dell’Agenzia spaziale europea ha rivelato un brillamento gigante senza precedenti. «In realtà è un fenomeno molto raro: di queste esplosioni, chiamate in inglese giant flare, se ne sono viste solamente tre in cinquant’anni di osservazioni. L’ultima è proprio questa del dicembre 2004, che delle tre osservate finora è stata decisamente la più brillante, la più potente di tutte», spiega a Media Inaf Sandro Mereghetti, ricercatore dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf).

La sorgente di questo segnale, la magnetar Sgr 1806-20, si trova nella nostra galassia, la Via Lattea, a circa trentamila anni luce dalla Terra. Aveva già mostrato segni di attività da un paio di mesi e diversi gruppi di ricerca, Mereghetti compreso, la stavano studiando con vari telescopi spaziali. Poi una coincidenza cosmica ha fatto sì che il segnale più interessante raggiungesse il nostro pianeta tra il pranzo di Natale e la vigilia di capodanno. «È un periodo un po’ sfortunato perché si tende a essere in vacanza in quei giorni, quindi ci ha colti un po’ di sorpresa», scherza l’astrofisico. «Certo eravamo pronti a lavorarci, però se il segnale non fosse arrivato proprio durante le ferie di Natale, magari saremmo stati più svelti». In realtà Mereghetti, allora in forza all’Istituto di astrofisica spaziale e fisica cosmica del Cnr di Milano (che sarebbe di lì a poco confluito nel neo-nato Inaf), fu il primo, insieme ai suoi collaboratori, ad annunciare l’osservazione di questo portentoso brillamento con una circolare sulla piattaforma Gcn (General Coordinates Network) della Nasa, il 29 dicembre.

Non era solo l’intensità formidabile di questo giant flare a stuzzicare la curiosità degli studiosi. Gli altri due brillamenti di questo tipo, osservati rispettivamente nel 1979 e nel 1998, erano caratterizzati da due fasi: un burst iniziale, molto breve e molto brillante, dalla durata inferiore a un secondo, seguito da un’emissione che dura qualche minuto e che si vede pulsare, perché la stella di neutroni gira. «Nel giant flare del 2004, grazie alla grande sensibilità di Integral, abbiamo visto una terza fase: un’emissione gamma durata per più di un’ora, che non era mai stata vista», chiarisce Mereghetti.

Rappresentazione artistica del telescopio spaziale Integral. Crediti: Esa

All’epoca, i ricercatori interpretarono la terza fase del brillamento gigante in maniera non dissimile dal fenomeno dell’afterglow che si osserva nei lampi di raggi gamma (in inglese Gamma-ray burst, o Grb). Durante queste esplosioni, infatti, viene emessa una grande quantità di materia a velocità relativistiche che, una volta espulsa, si riversa violentemente sul mezzo circostante, generando onde d’urto e l’emissione di radiazione ad alta energia che può durare diverse ore o anche di più. Qualcosa di analogo sembrava celarsi anche dietro l’inedito comportamento di questa magnetar.

Una spiegazione qualitativa ma assolutamente soddisfacente, che fu pubblicata sull’Astrophysical Journal nell’aprile del 2005. «Avevamo concluso che non poteva essere un’emissione proveniente dalle immediate vicinanze della stella, come la componente pulsata, perché altrimenti avremmo visto ancora le pulsazioni», sottolinea il ricercatore. «Doveva trattarsi di qualcosa che avveniva lontano dalla stella, probabilmente nel materiale scagliato fuori durante il flare. Non poteva trattarsi di un processo che avveniva nella magnetosfera perché abbiamo cercato le pulsazioni e non si vedevano più, si vedono soltanto nella nella parte precedente, nella cosiddetta coda pulsata».

Negli anni a seguire, il cielo ai raggi gamma si è rivelato meno generoso, se non altro in fatto di brillamenti giganti: non ne sono stati osservati altri da allora. Ma due decenni più tardi, questa preziosa osservazione è risalita agli onori della cronaca. Del resto, non sarebbe corretto dare del taccagno al cielo delle alte energie, che regala giornalmente lampi di raggi gamma ai telescopi spaziali e che ha permesso, nel 2017, di identificare la prima kilonova generata dalla coalescenza di due stelle di neutroni, mediante la rilevazione congiunta di un Grb e di un’onda gravitazionale. È proprio quest’ultima scoperta a rimettere in moto la storia iniziata con il giant flare del 2004.

La coalescenza di due stelle di neutroni si era rivelata essere una fucina di elementi pesanti: parliamo di quegli elementi davvero pesanti, più pesanti del ferro, che non si formano attraverso i consueti processi di nucleosintesi all’interno delle stelle. Metalli pregiati come l’oro e il platino, per capirci. La kilonova aveva finalmente svelato un sito cosmico dove questi rari elementi prendono forma. Ma le collisioni tra stelle di neutroni, anch’esse piuttosto rare, non sarebbero in grado, da sole, di spiegare l’abbondanza di questi elementi osservata oggi nell’universo. Per questo, dall’altro lato dell’oceano Atlantico, un gruppo di astrofisici teorici inizia a indagare possibili meccanismi alternativi. Le magnetar, per esempio.

Una rottura nella crosta di una stella di neutroni altamente magnetizzata, mostrata qui in un rendering artistico, può innescare eruzioni ad alta energia. Crediti: Nasa’s Goddard Space Flight Center/S. Wiessinger

Sulla base dei calcoli sviluppati nel 2024 da Brian Metzger, professore alla Columbia University e ricercatore senior presso il Flatiron Institute di New York, insieme ai suoi collaboratori, l’esplosione che genera i brillamenti giganti può espellere materiale dalla superficie di una magnetar nello spazio circostante, dando origine a quello che gli astrofisici chiamano il “processo r” (o rapido). Proprio come in una kilonova, questo processo crea nuclei atomici radioattivi pesanti e instabili, che decadono rapidamente, formando elementi stabili, come appunto l’oro. Durante il decadimento, questi nuclei radioattivi emettono un bagliore luminoso, che dovrebbe essere possibile osservare proprio nei raggi gamma.

Dopo una serie di scambi via email con la comunità degli astronomi osservativi, Metzger e collaboratori scoprono che un segnale di questo tipo era stato effettivamente visto vent’anni prima: il potente giant flare scoperto da Integral e osservato poi con altri satelliti a fine 2004. L’accordo tra il loro modello e i dati d’archivio è eccellente, ma poiché chi studia le magnetar generalmente non si occupa della nucleosintesi di elementi pesanti, nessuno ci aveva pensato prima. Per Anirudh Patel, dottorando alla Columbia University di New York e primo autore dell’articolo pubblicato oggi su The Astrophysical Journal Letters, «è stata un’emozione incredibile vedere la nostra previsione confermata dai dati esistenti e comprendere le implicazioni che questa scoperta ha per la storia di una parte della materia che compone il nostro pianeta».

Il nuovo modello teorico spiega l’emissione a tre fasi in una maniera leggermente diversa da come era stata interpretata subito dopo le osservazioni. Mereghetti nota che «il loro modello è anche molto più dettagliato per cui riescono a riprodurre sia lo spettro che l’evoluzione temporale osservata nei raggi gamma». Durante le fasi iniziali del flare, quando avviene questa emissione potentissima, parte della radiazione riscalda un pezzo della superficie della magnetar. «L’enorme irraggiamento sulla superficie della stella di neutroni», aggiunge l’astrofisico, «provoca un’espulsione di materia a velocità relativistiche, come del resto avevamo detto anche noi vent’anni fa. Quello che loro hanno calcolato però è che, in questi getti di materia, si possono formare degli elementi radioattivi grazie al processo di nucleosintesi “rapido”, poiché la materia espulsa è un pezzo di stella di neutroni, non un pezzo di una stella qualsiasi, quindi un materiale molto ricco di neutroni. Gli elementi radioattivi poi decadono e, con l’energia del decadimento, alimentano l’emissione che abbiamo osservato nei raggi gamma».

Illustrazione schematica della sequenza di eventi in un brillamento gigante di magnetar: a sinistra, l’esplosione espelle materia e radiazione dalla superficie, dando origine al breve e intenso burst iniziale; al centro, l’emissione è modulata dalla rotazione della magnetar; a destra, infine, il materiale espulso, ricco di neutroni, mette in moto il processo rapido di nucleosintesi, generando elementi pesanti come l’oro e il platino. Crediti: Anirudh Patel et al. 2025

Questi eventi esplosivi sulla superficie delle magnetar potrebbero produrre una quantità di elementi pesanti pari alla massa di un pianeta come Marte o la Terra. Una quantità rispettabile, pur se circa cento volte inferiore rispetto a quella prodotta da una kilonova, ma molto importante nell’alchimia generale dell’universo. Infatti i giant flare sono un fenomeno molto più frequente rispetto alla collisione tra due stelle di neutroni, e soprattutto si manifestano prima nella storia del cosmo. Mereghetti ricorda come la coalescenza di due stelle di neutroni sia un processo che ha luogo miliardi di anni dopo la formazione delle prime stelle: «prima bisogna formare due stelle di neutroni in un sistema binario, poi bisogna aspettare che l’orbita in cui si trovano decada, il che prende centinaia di milioni di anni se non miliardi di anni. La coalescenza di due stelle di neutroni avviene molto tempo dopo che la stella di neutroni si è formata, mentre le magnetar sono stelle di neutroni giovani, quindi queste esplosioni sulle magnetar avvengono molto prima in termini di evoluzione stellare». Il nuovo canale di produzione, descritto da Patel e collaboratori e dimostrato dalle osservazioni del 2004, è dunque un modo per arricchire di metalli pesanti generazioni di stelle più antiche, e potrebbe aver contribuito fino al dieci percento delle abbondanze osservate oggi nel cosmo. Secondo Metzger «questa singola, gigantesca esplosione è stata così prodigiosa nel creare questi elementi pesanti che l’accumulo di eventi simili nel corso della storia della nostra galassia potrebbe aver contribuito a una frazione significativa di tutti questi elementi sulla Terra».

Mereghetti si dice soddisfatto del corso degli eventi. «L’articolo era stato ben accetto e aveva suscitato interesse già ai tempi», racconta, «perché era la scoperta di una cosa nuova. Il fatto che poi a distanza di molti anni venga trovata una possibile spiegazione ancora più dettagliata, più precisa, è senz’altro interessante anche perché riporta l’attenzione sulle magnetar». Il merito della scoperta, oltre ai ricercatori coinvolti e alla disponibilità di Integral, lanciato appena due anni prima, si deve anche a una buona dose di fortuna, ammette. Perché oltre a essere rari, i giant flare sono assolutamente imprevedibili. «Quando Integral ha rivelato questo brillamento, era puntato in tutt’altra direzione. L’ha visto comunque perché era talmente brillante che era impossibile non vederlo. Ma sarebbe anche potuto arrivare in un momento in cui il satellite era spento oppure in condizioni più sfavorevoli».

Ironia della sorte, dopo ventidue anni di servizio, Integral è stato recentemente spento, o meglio, continua a raccogliere dati, ma non li trasmette più a terra. «Proprio adesso che abbiamo avuto una serie di risultati interessanti, per esempio la magnetar scoperta nella galassia M82 alla fine del 2023 e questo nuovo modello che spiega dei vecchi dati», rammenta il ricercatore. «Speriamo che ci siano altre occasioni in futuro di riutilizzare ancora i dati in archivio, perché sicuramente in tutti questi anni è stata raccolta una quantità di dati enorme che ancora racchiude potenzialmente delle cose interessanti».

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